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Vacanze, 3 italiani su 4 in Malghe, frantoi e cantine

Tre italiani su quattro (75%) in vacanza al mare, in montagna o nel verde durante l’estate 2020 hanno scelto di visitare frantoi, malghe, cantine, aziende, agriturismi o mercati degli agricoltori per acquistare prodotti locali a chilometri zero direttamente dai produttori, ottimizzare il rapporto prezzo/qualità e garantirsi una spesa sicura.

E’ quanto emerge da una analisi Coldiretti/Ixè che evidenzia come si tratti di una tendenza favorita dalla crescita del turismo di prossimità con la riscoperta dei piccoli borghi e dei centri minori nelle campagne italiane, in alternativa alle destinazioni turistiche più battute, per evitare pericolosi affollamenti con l’emergenza coronavirus.

 

Si tratta – sottolinea la Coldiretti – di una svolta patriottica importante in un momento in cui la mancanza quasi totale di turisti stranieri ha fatto venir meno una fetta importante della clientela particolarmente sensibile alla qualità e sostenibilità dell’alimentazione. Il cibo quest’anno rappresenta per quasi il 18% degli italiani – continua la Coldiretti – la principale motivazione di scelta del luogo di villeggiatura, mentre per un altro 50% costituisce uno dei criteri su cui basare la propria preferenza. Solo un 7% dichiara di non prenderlo per niente in esame.

 

La ricerca dei prodotti tipici è diventata un ingrediente importante – spiega Coldiretti – delle vacanze in un Paese come l’Italia che è leader mondiale del turismo enogastronomico potendo contare sull’agricoltura più green d’Europa con 305 specialità ad indicazione geografica riconosciute a livello comunitario e 524 vini Dop/Igp, 5155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola, la leadership nel biologico con oltre 60mila aziende agricole biologiche e la più grande rete mondiale di mercati di agricoltori e fattorie di Campagna Amica, oltre alle numerose iniziative di valorizzazione come le strade del vino o dell’olio.

 

Il cibo – sottolinea la Coldiretti – è diventato la voce principale del budget delle famiglie in vacanza in Italia con circa un terzo della spesa di italiani e stranieri destinato alla tavola per consumare pasti in ristoranti, pizzerie, trattorie o agriturismi, ma anche per cibo di strada o specialità enogastronomiche. Un ruolo importante in tutto ciò è rappresentato dai piccoli borghi dove nasce il 92% delle produzioni tipiche nazionali secondo l’indagine Coldiretti/Symbola, una ricchezza conservata nel tempo dalle imprese agricole con un impegno quotidiano per assicurare la salvaguardia delle colture storiche.

 

L’acquisto di un alimento direttamente dal produttore – sottolinea la Coldiretti – è anche una occasione per conoscere non solo il prodotto, ma anche la storia, la cultura e le tradizione che racchiude dalle parole di chi ha contribuito a conservare un patrimonio che spesso non ha nulla da invidiare alle bellezze artistiche e naturali del territorio nazionale. In molti casi la vendita – precisa la Coldiretti – è accompagnata anche dalla possibilità di assaggi e degustazioni “guidate” che consentono di fare una scelta consapevole difficilmente possibile altrove, ma anche di verificare personalmente i processi produttivi in un ambiente naturale tipico della campagna.

 

In un momento difficile per l’economia e l’occupazione nazionale acquistare prodotto del territorio significa anche aiutare l’economia e l’occupazione locale e per questo la Coldiretti è impegnata nella mobilitazione #MangiaItaliano. L’obiettivo è favorire il consumo di cibo 100% tricolore nei mercati, nei ristoranti, negli agriturismi con il coinvolgimento di numerosi volti noti della televisione, del cinema, dello spettacolo, della musica, del giornalismo, della ricerca e della cultura.




Report, Istat: Digitalizzazione e tecnologia nelle imprese italiane

La prima edizione del Censimento permanente delle imprese, conclusa alla fine del 2019, ha permesso di approfondire anche tematiche emergenti e rilevanti per la competitività, la sostenibilità sociale e ambientale e la crescita economica del Paese.

Nel rapporto che viene diffuso oggi l’attenzione si focalizza su digitalizzazione/tecnologia/innovazione. La progressiva digitalizzazione dei processi aziendali viene adottata come chiave di lettura per una serie di fenomeni che stanno influenzando le strategie imprenditoriali come lo sviluppo di progetti di innovazione, l’emergere di nuovi modelli di business, la diffusione e l’utilizzo di nuove tecnologie e, infine, l’impatto della digitalizzazione sulla forza lavoro.

Riguardo la diffusione di tecnologie digitali, l’utilizzo di un insieme di indicatori è giustificato da almeno due motivazioni. In primo luogo, la digitalizzazione è un fenomeno complesso e multidimensionale, tale da essere comunemente misurato mediante batterie di indicatori in forma di scoreboard, oppure con indicatori sintetici.

In secondo luogo, a livello internazionale il quadro metodologico e definitorio è ancora parziale; in particolare, manca una esauriente definizione a fini statistici di cosa si intenda esattamente per digitalizzazione. Ciò rende necessaria l’identificazione di indicatori che, seppur parziali, siano complementari tra loro e legati da una chiave di lettura unitaria, in modo da evitare raccolte asistematiche di generici indicatori “digitali”.

Ad esempio, gli indicatori statistici disponibili – riferiti per lo più all’adozione e all’uso di tecnologie ICT – sono stati utilizzati per misurare la trasformazione digitale delle imprese semplicemente in relazione alla diffusione di alcune tecnologie o pratiche – come la connettività a banda larga o la pratica dell’e-commerce – senza analizzare le trasformazioni da esse indotte nei processi aziendali.

La pratica manageriale suggerisce che la trasformazione digitale è invece essenzialmente un processo di evoluzione dell’organizzazione e della cultura aziendale che mira a raggiungere la “maturità” digitale (digital maturity) delle imprese.

Nel censimento permanente il tema della digitalizzazione è stato quindi interpretato integrando il monitoraggio degli investimenti in tecnologie digitali di tipo infrastrutturale (connessione a Internet, acquisto di servizi cloud, ecc.) con l’individuazione di investimenti più specializzati che possano segnalare uno spostamento verso il pieno utilizzo delle risorse digitali disponibili (Big Data, applicazioni di Internet delle cose, stampa 3D, robotica, simulazione, ecc.). In tale prospettiva, per maturità digitale si intende l’investimento in infrastrutture digitali non come obiettivo a sé ma come condizione per ottimizzare i flussi informativi all’interno dell’impresa, con effetti positivi in termini di efficienza e competitività.

Tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative
Nel periodo 2016-2018 oltre tre quarti delle imprese con almeno 10 addetti (77,5%) hanno investito, o comunque utilizzato, almeno una delle 11 tecnologie individuate nel questionario del censimento come fattori chiave di digitalizzazione.

L’utilizzo congiunto di tali tecnologie – in particolare, di una combinazione tra infrastrutture digitali e tecnologie applicative – viene quindi proposto come indicatore sperimentale di maturità digitale.

La maggior parte delle imprese utilizza un numero limitato di tecnologie, dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali e, necessariamente, cyber-security) e lasciando eventualmente a una fase successiva l’adozione di tecnologie applicative.

Sinora, il grado di “digitalizzazione” delle imprese è stato misurato essenzialmente in termini di infrastrutturazione (accesso alla banda larga, numero di apparecchiature acquistate od utilizzate, ecc.) con il rischio che una rapida diffusione della capacità tecnica di utilizzo di strumenti digitali potesse dare l’impressione di una maturità digitale che, in realtà, esisteva solo potenzialmente.

 

L’utilizzo di infrastrutture digitali giunge a saturazione già tra le imprese meno digitalizzate (quelle con investimenti “soltanto” in 4 o 5 tecnologie), solo molto più lentamente si diffondono applicazioni più complesse e con maggiore impatto sui processi aziendali: appena il 16,6% delle imprese ha adottato almeno una tecnologia tra Internet delle cose, realtà aumentata o virtuale, analisi dei Big Data, automazione avanzata, simulazione e stampa 3D) .

Il processo di digitalizzazione delle imprese sembra distinto in due stadi o, in alcuni contesti più complessi, anche multistadio. Appare infatti evidente la necessità di costruire in una prima fase le condizioni tecniche e culturali per avviare il processo di digitalizzazione che si completa, in una seconda fase, con l’adozione di soluzioni applicative più utili ed efficaci per aumentare efficienza e produttività.

La chiave di lettura proposta è quella di superare un approccio quantitativo (maturità digitale = numero di tecnologie adottate) e di considerare come fattore chiave l’integrazione tra tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative in un’ottica di complementarietà delle varie soluzioni tecnologiche. Ovviamente, un limite di tale approccio è che non esiste un mix tecnologico da identificare come ideale ma, piuttosto, l’integrazione di diverse soluzioni tecnologiche deve assecondare la forte eterogeneità esistente nel settore delle imprese.

 

Il discrimine dimensionale nell’adozione di tecnologie digitali, ad esempio, è assai marcato. Ha effettuato investimenti digitali il 73,2% delle imprese con 10-19 addetti e il 97,1% di quelle con oltre 500 addetti. Meno significative sono le differenze territoriali: si passa dal 73,3% nel Mezzogiorno al 79,6% nel Nord-est.

A livello settoriale emerge il ruolo trainante dei servizi: le telecomunicazioni (94,2%), la ricerca e sviluppo, l’informatica, le attività ausiliarie della finanza, l’editoria e le assicurazioni hanno percentuali di imprese che investono in tecnologie digitali superiori al 90%. Il primo settore manifatturiero per investimenti digitali è la farmaceutica (94,1%), seguita a distanza dalla chimica (86,6%).

Il livello di maturità digitale delle imprese italiane
La base informativa offerta dal censimento consente di valutare come si distribuiscono tali imprese in relazione all’utilizzo combinato delle tecnologie. Una semplice analisi per classi latenti ha consentito di individuare quattro profili di impresa, definiti non tanto in base all’intensità dei loro investimenti digitali, quanto alla combinazione di diverse soluzioni tecnologiche interpretate come tra loro complementari .

 

Infine, il quarto gruppo è formato da imprese digitalmente “mature”, caratterizzate da un utilizzo integrato delle tecnologie disponibili, che sono un punto di riferimento per l’intero sistema delle imprese pur rappresentando solo il 3,8% del totale.

La presenza di tali gruppi di imprese è piuttosto omogena a livello settoriale, nel senso che la distribuzione non è molto diversa tra industria e servizi se non per il dato particolarmente elevato del 5,2% di imprese digitalmente “mature” nell’ambito dell’industria in senso ampio: un probabile effetto dei consistenti incentivi alla digitalizzazione resi disponibili a livello statale e regionale nel corso degli ultimi cinque anni.

 

La valutazione del grado di maturità digitale delle imprese italiane con 10 addetti e oltre può essere sintetizzata in quattro punti: circa tre quarti delle imprese sono impegnate in investimenti digitali (ma con prospettive di ulteriore diffusione di tali attività); le imprese sotto i 100 addetti sono prevalentemente coinvolte nella “costruzione” del loro peculiare modello di digitalizzazione; le imprese con oltre 100 addetti sono invece alle prese con la difficile “sperimentazione” di nuove soluzioni tecnologiche e organizzative; soltanto il 3,8% delle imprese (che valgono il 16,8% di addetti e il 22,7% di valore aggiunto) è già nella fase di maturità digitale; tale quota è decisamente più elevata nel Nord-ovest (4,7%), tra le imprese con oltre 500 addetti (23%) e nell’industria (5,2%).

Le soluzioni cloud: una vera tecnologia “abilitante”
Ѐ stato già osservato il ruolo degli investimenti in cyber-security e la loro caratteristica di interessare un numero crescente di imprese in parallelo all’intensificazione dei processi di digitalizzazione. Una tendenza non dissimile avviene per le soluzioni cloud, o servizi cloud, che garantiscono efficienza, economicità e sicurezza nella gestione di grandi quantità di dati e, più in generale, si propongono come condizione essenziale per la dematerializzazione dei processi aziendali. Passando dalle fasi esplorative alle fasi applicative della digitalizzazione, la probabilità di adottare soluzioni cloud aumenta dal 20% al 50% (Figura 3).

L’intensità applicativa è però ferma a un livello del 22,1% (pur corrispondente al 41,2% della forza lavoro e al 46,0% del valore aggiunto delle imprese con almeno 10 addetti), una condizione penalizzante nei confronti internazionali che segnala una debolezza infrastrutturale e rallenta di fatto i processi aziendali di digitalizzazione. Il motivo per cui governi e istituzioni di ricerca considerano essenziale la diffusione dei servizi cloud è perché si tratta di servizi che l’impresa può acquistare dall’esterno senza vincoli di localizzazione e dimensione.

Il cloud rende, in sintesi, possibile quella scalabilità delle attività digitali che è condizione essenziale per consentire, soprattutto alle imprese medio-piccole, di affrontare la sfida della trasformazione digitale senza immobilizzare ingenti risorse per l’acquisto di calcolatori, server per l’immagazzinamento dei dati e software applicativo. Una verifica del livello “qualitativo” dei servizi cloud acquistati dalle imprese italiane è stata svolta nell’ambito del censimento, esaminando per quali finalità le imprese italiane con 10 addetti e oltre utilizzano soluzioni cloud.

Le imprese utilizzano servizi cloud con modalità più strumentali che strategiche, in certa misura non dissimili da quelle delle famiglie. Tra le cinque tipologie di servizi considerate, la più diffusa è infatti quella della comunicazione, ovvero posta elettronica e messaggistica (66,1% delle imprese cui fa capo il 70% degli addetti e del valore aggiunto), che è ormai quasi totalmente gestita via cloud. Non meno ovvii sono gli utilizzi di servizi cloud per l’archiviazione dati (57,3%, 69,5% in termini di addetti) e per l’uso via Internet di software per ufficio (48,5% delle imprese, 60,7% degli addetti).

Meno frequenti le soluzioni più professionali e orientate al business, come l’uso da remoto di software gestionale (38,3% con prevalenza delle imprese più grandi: 50,3% in termini di addetti e 51,6% di valore aggiunto) e l’analisi dei dati aziendali in remoto che, sebbene limitata al 12,1% delle imprese (che pesano pur sempre per il 28,8% degli addetti e il 32% del valore aggiunto) indica un processo già avanzato di digitalizzazione dei dati aziendali.

Come si articola la digitalizzazione dei processi aziendali
Un’altra chiave di lettura del processo di digitalizzazione è offerta dallo studio del grado di utilizzo di software gestionale. In un contesto di progressiva dematerializzazione dei processi aziendali, le imprese devono dotarsi degli strumenti necessari a gestire i nuovi flussi informativi digitali con gradi crescenti di automazione delle procedure routinarie. In questo senso, l’adozione dei software gestionali da parte delle imprese può essere vista come un ulteriore indicatore, questa volta “orizzontale”, del grado di digitalizzazione di un’impresa.

L’orizzontalità può essere individuata con riferimento all’attività caratteristica della singola impresa che prevede tipicamente processi di input, gestione interna dei flussi materiali e immateriali, trasformazione e di output. Ciascuna fase del processo produttivo è soggetta a digitalizzazione con l’adozione di soluzioni (software) specifiche ma, evidentemente, solo con l’automazione di più fasi dell’intero processo produttivo si raggiunge un livello di maturità digitale che garantisce significativi guadagni di produttività.

Il livello base di automazione, a cui accede il 67,2% delle imprese (66,8% per le imprese con 10-19 addetti e 78,9% per le imprese con 500 e più addetti) è quello della gestione della documentazione aziendale. Questo è evidentemente anche il risultato di un contesto economico dove i partner dell’impresa – inclusa la pubblica amministrazione – richiedono in misura crescente comunicazioni in formato digitale. La necessità di archiviare efficacemente grandi quantità di documenti, ma anche la possibilità di gestire tali informazioni da remoto (ad esempio, con modalità di telelavoro), rendono spesso questi software i primi gestionali a cui accedono le imprese, anche piccole e medie.

Un’altra esigenza chiave delle imprese, soprattutto manifatturiere e di alcuni settori dei servizi, è quella della gestione del magazzino e dei flussi materiali in entrata e uscita dall’impresa. I software che gestiscono questa funzione sono utilizzati in media dal 50,7% delle imprese: tale quota scende al 45,4% considerando le imprese con 10-19 addetti e raggiunge il 72,7% tra quelle con 500 addetti e oltre.

Le esigenze legate alla gestione della “catena di distribuzione di un’impresa” sono poi fortemente differenziate a livello dimensionale e settoriale.
La terza categoria di applicazioni, anch’esse molto diffuse, include quelle che automatizzano la gestione della contabilità (e degli adempimenti fiscali). Il 47,9% delle imprese dichiara di affidarsi a tali soluzioni (41,4% tra le imprese con 10-19 addetti, 76,3% tra le grandi).

Il grado di adozione di queste applicazioni diminuisce con l’aumentare della complessità degli applicativi gestionali, ma soprattutto con la necessità di riorganizzare l’intera struttura dell’impresa per garantire che essi siano alimentati da corretti e costanti flussi informativi.

La gestione della produzione, sia nelle imprese manifatturiere che in quelle dei servizi, non è facilmente automatizzabile, anche adottando sofisticate soluzioni digitali, in quanto richiede che sia predisposta una complessa rete di sensori per consentire il monitoraggio in tempo reale di tutte le funzioni produttive. Infatti, accede a queste tecnologie solo il 33,7% delle imprese (26,7% delle piccole, 51% delle grandi e 58,5% tra le imprese manifatturiere).

Un altro esempio è la gestione sistematica delle relazioni con la clientela, su cui investono solo le imprese che hanno superato una determinata soglia in termini di numero di clienti, complessità dei beni e servizi offerti e intensità delle transazioni, e che operano su mercati fortemente competitivi.

In questo caso, le più adottate sono le già citate soluzioni CRM (Customer Relationship Management), che gestiscono funzioni interne ed esterne all’impresa e sono state scelte dal 33,0% delle imprese (31,4% tra le piccole, 51,5% tra le grandi).

Un livello più specialistico riguarda quelle applicazioni finalizzate ad automatizzare (o supportare) la pianificazione aziendale piuttosto che la vera e propria gestione operativa dell’impresa. Si tratta, da un lato, delle applicazioni per la pianificazione delle attività di produzione e, dall’altro, delle già citate soluzioni ERP (Enterprise Resource Planning) per la pianificazione dell’intera gestione aziendale (e che, in realtà, spesso incorporano diverse funzioni presenti anche nei software “specializzati” citati in precedenza). Il software per la pianificazione della produzione è presente nel 23,1% delle imprese (16,1% nelle piccole, 48,2% nelle grandi), quello per la pianificazione gestionale, o ERP, nel 21,7% (17% nelle piccole, 54,5% nelle grandi).

Anche se la presenza di software ERP indica un elevato grado di maturazione digitale di un’impresa, l’utilizzo di questo indicatore nei confronti internazionali risulta poco utile per valutare il grado di integrazione orizzontale dei processi oggetto di digitalizzazione, per cui sarebbe opportuno analizzare diverse tipologie di software gestionali e di pianificazione.
Riguardo l’integrazione “orizzontale” dei diversi software gestionali, si conferma il quadro già delineato .

Le imprese che adottano il loro primo software gestionale si orientano verso applicativi per la gestione documentale o la contabilità industriale, che sono evidentemente le esigenze percepite come più pressanti. In una fase ulteriore emerge la necessità di incrementare l’efficienza nella gestione della supply chain, ovvero delle relazioni con i fornitori e del magazzino.

La gestione del processo produttivo e delle relazioni con la clientela (CRM) trovano spazio solo a un livello di integrazione più elevato perché si tratta già di applicazioni interconnesse con il sistema informativo aziendale e non possono operare in isolamento (stand-alone). L’ultima fase di integrazione riguarda la pianificazione della produzione e della gestione (ERP), soluzioni che sono efficacemente adottate solo nel contesto di un’impresa digitalmente “matura” o, comunque, con una gestione avanzata dei flussi informativi interni.

 

Gli effetti percepiti della digitalizzazione
Dal momento che il censimento offre un’istantanea del processo di trasformazione digitale delle imprese italiane essenzialmente riferito all’anno 2018, eventuali valutazioni sull’impatto economico e sociale di tale processo dovranno essere rimandate al momento in cui sarà disponibile – con un necessario ritardo temporale

– una chiara evidenza quantitativa sui relativi effetti nel medio-lungo termine. D’altra parte, le imprese hanno già una percezione di come gli investimenti digitali stanno influenzando le loro attività – e, in particolare, la loro produttività – e tale percezione è stata oggetto di rilevazione nel censimento.

Sono stati considerati sette effetti principali (cinque positivi e due negativi) che la digitalizzazione potrebbe avere sulla produttività d’impresa.

In merito agli effetti positivi, il 65,6% delle imprese, con 10 addetti e oltre, che hanno adottato almeno una tecnologia digitale nel triennio 2016-2018 ritiene che il digitale abbia agevolato la condivisione di informazioni e conoscenze all’interno delle imprese (86% delle grandi imprese). Sono invece soltanto il 40,9% quelle che hanno verificato una relazione positiva tra digitalizzazione e incremento dell’efficienza dei processi produttivi (imprese manifatturiere 52,3%).

Inoltre appena il 17,3% delle imprese pensa che la digitalizzazione faciliti l’acquisizione di conoscenze dall’esterno e il 10,4% che renda possibile ottenere dall’esterno servizi, materie prime e semi-lavorati di migliore qualità. Irrilevante (3,8%) è infine la percentuale di imprese che ritengono la digitalizzazione utile per incrementare le opportunità di esternalizzazione di funzioni produttive.

Riguardo ai due fattori potenzialmente negativi, le imprese italiane considerano entrambi irrilevanti: solo l’1,7% delle rispondenti considera un rischio la perdita di efficienza o produttività dovuta alle criticità della transizione mentre lo 0,6% non ritiene rischiosa la perdita di efficienza o produttività determinata da investimenti eccessivi in digitale.

La percezione positiva degli effetti della digitalizzazione è legata anche al grado di intensità dell’investimento in tecnologie digitali (espresso in termini di numero di tecnologie adottate). Una lettura di tali effetti percepiti – basata sulla distinzione delle imprese nei quattro livelli di maturità digitale precedentemente descritti – conferma che il grado di digitalizzazione influisce direttamente sulla percezione delle imprese.

Anche in questo caso, si tratta in realtà di un diverso grado di apprezzamento positivo dei vantaggi di adottare tecnologie digitali, in quanto gli effetti negativi sono quasi irrilevanti. Ѐ comunque interessante notare che le imprese “sperimentatrici” hanno una percezione dei vantaggi della digitalizzazione assai simile a quella delle imprese digitalmente “mature”: un segnale dell’efficacia di tali tecnologie almeno per quanto riguarda la circolazione di conoscenza (inclusi dati e informazioni gestionali) all’interno e all’esterno dell’impresa.

 

Digitalizzazione e formazione del personale
Tra le varie sfide che ostacolano il processo di trasformazione digitale delle imprese è da considerare con particolare attenzione la necessità di preparare adeguatamente il personale per un utilizzo efficace delle nuove tecnologie. Il censimento ha indagato la questione con uno specifico quesito finalizzato a verificare una relazione diretta tra l’adozione di una specifica tecnologia digitale e la somministrazione di una altrettanto specifica formazione professionale.

Dai risultati censuari emerge con chiarezza che l’adozione di software gestionali rappresenta ancora una sfida per molte imprese: in media, circa il 40% di esse necessita di formare ad hoc il personale per il suo utilizzo (72,6% per le grandi imprese, dove si può ipotizzare l’adozione di software più complessi o che richiedono una maggiore disponibilità di dati per operare) .

Una formazione specifica per l’uso di Internet è ancora rilevante ma in un contesto in cui, almeno per le grandi imprese, si può assumere che il personale sia già largamente auto-formato.

Ovviamente, l’auto-formazione può riguardare lo svolgimento di funzioni come “utenti” di Internet mentre resta essenziale una specifica formazione professionale per le figure che gestiscono e mantengono le reti. Soprattutto le grandi imprese segnalano, piuttosto, una vera emergenza formativa in tema di cyber-security (52,9%) che è, in media, la terza tecnologia digitale che richiede supporto formativo. Infine, le piccole e medie imprese – che hanno bassi livelli di adozione di tecnologie digitali applicative – non considerano rilevante la formazione su applicazioni come la simulazione tra macchine interconnesse, l’automazione industriale, i Big Data, la stampa 3D, l’Internet delle Cose o le tecnologie immersive.

Ovviamente, c’è da tenere conto che tali tecnologie sono spesso adottate da imprese medio-piccole con il supporto esterno di società fornitrici di tecnologia o di consulenza, mediante pacchetti che includono assistenza e formazione del personale. Infatti, il ricorso alla formazione su tali tecnologie è più elevato tra le grandi imprese dove la maggior parte dei processi è internalizzata.

 

Gli investimenti futuri in digitalizzazione
Alla luce delle tendenze emerse con riferimento al triennio 2016-2018, e tenendo conto del contesto economico e sociale in rapida evoluzione, può essere di interesse esaminare quali erano, nella fase pre-Covid-19, le aspettative delle imprese relativamente ai loro investimenti in tecnologie digitali tra il 2019 e il 2021.

Una quota significativa di imprese dichiara di voler mantenere elevati gli investimenti infrastrutturali (connessione a Internet, cyber-security) mentre per le tecnologie applicative – pur tenendo conto del loro diverso grado di diffusione a livello settoriale – quelle che le hanno inserite nei propri progetti di sviluppo sono sistematicamente sotto il 10%, escluso l’Internet delle Cose .

A livello settoriale, a parte il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, non emergono aspettative di investimenti significativi concentrati in singoli comparti. Vi sono però alcuni casi di investimenti mirati, ad esempio l’automazione/robotica e la simulazione nel settore manifatturiero che arriva ad interessare il 16-17% delle imprese dell’intero comparto. In generale, però, anche prima della crisi COVID-19, le imprese italiane non mostravano di essere pronte a un cambio di passo nei processi di trasformazione digitale.

 

In generale, le imprese sembrano orientarsi verso aggiustamenti limitati dei propri progetti di sviluppo, almeno è ciò che emerge nell’analisi per dimensione d’impresa.

Ad esempio, la classe 10-19 addetti è divisa in due cluster: uno caratterizzato da incrementi attesi rilevanti, ma a partire da livelli di diffusione inferiori al 10% (si tratta prevalentemente di tecnologie applicative); l’altro, riferito a tecnologie infrastrutturali, mostra livelli di diffusione in media con le altre classi dimensionali ma incrementi attesi estremamente bassi.

Con leggere differenze, questo schema è valido per quasi tutte le classi di addetti determinando, come già osservato, una limitata dinamica a livello di sistema .

Un’eccezione merita però di essere segnalata. Con riferimento a tre tecnologie applicative chiave – Internet delle Cose, automazione e robotica e analisi dei Big Data – il 50% delle imprese appartenenti alle classi dimensionali 250-499 addetti e 500 e oltre dichiara l’intenzione di mantenere un elevato tasso di incremento anche in presenza di tassi di diffusione già significativi per il contesto italiano.

 

Le competenze digitali del personale delle imprese
La digitalizzazione cambia la domanda di competenze del personale e fa emergere nuove priorità e potenziali criticità. Il tema dell’alfabetizzazione informatica, ad esempio, è trasversale a tutti gli ambiti sociali ed economici ma risulta cruciale in contesti lavorativi soggetti a intensi processi di transizione digitale.

Il tema è ovviamente complesso e una singola indagine statistica può cogliere solo alcuni aspetti del fenomeno.

I risultati ottenuti dal censimento sono stati distinti in quattro aree di competenza: alfabetizzazione digitale (A), articolata in tre competenze specifiche; comunicazione e collaborazione (B), articolata in tre competenze specifiche; sicurezza (C), articolata in due competenze specifiche; soluzione dei problemi (D), articolata in due competenze specifiche (Figura 9).

L’area di competenza relativa alla sicurezza (C) è quella considerata più rilevante dalle imprese rispondenti: il 77,2% (86,8% degli addetti e 90,9% del valore aggiunto) considera rilevante la capacità del personale di “proteggere i dati personali e la privacy” e il 75% (85,4% degli addetti e 90,3% del valore aggiunto) di “proteggere i dispositivi digitali da virus o attacchi esterni”.

Il livello di criticità di queste competenze non è elevato, la percentuale di imprese che considerano non adeguato il livello di competenza del proprio personale varia tra il 10,4% e il 12,4% (quote analoghe anche in termini di addetti e valore aggiunto).

La seconda area di competenza segnalata è quella della comunicazione e collaborazione (B). Il 71,7% delle imprese (84,5% in termini di addetti e 89,1% in termini di valore aggiunto) considera importante la capacità di “comunicare sul luogo di lavoro via e-mail o mediante connessioni digitali”; la percentuale scende al 63,7% (78,2% addetti, 83,8%% valore aggiunto) per la capacità di “condividere informazioni di lavoro attraverso le tecnologie digitali” e al 59% (73,9% addetti e 80,0% valore aggiunto) per “collaborare sul lavoro attraverso le tecnologie digitali”.

Questo blocco di competenze sembra largamente acquisito dal personale delle imprese rispondenti: la criticità è del 6% o inferiore.

Tra le restanti classi di competenza, quella relativa alla capacità di affrontare e risolvere problemi in ambito informatico (D), la capacità di “risolvere problemi tecnico-informatici sul luogo di lavoro”, considerata rilevante solo dal 58,7% delle imprese (72,1% addetti, 78,0% valore aggiunto) è però quella con il più alto grado di criticità: tale competenza è infatti ritenuta non adeguata dal 20,7% delle imprese (equivalenti al 14,4% degli addetti).

Quanto alla capacità di “individuare le esigenze dei colleghi ed elaborare adeguate risposte basate su tecnologie digitali”, è considerata dalle imprese poco rilevante (42,7% imprese, con 61,3% addetti e 68,1% valore aggiunto) probabilmente perché è un compito troppo “tecnico” ma comunque rappresenta un punto di criticità per ben il 15,5% dei rispondenti (12,4% degli addetti).

 

Le competenze informatiche di base non sembrano essere tenute in grande considerazione dalle imprese, forse perché ritenute largamente acquisite dal personale. La capacità di “ricerca, selezione e modifica di documenti digitali in qualsiasi forma” è rilevante per il 54,6% delle imprese, la “valutazione, analisi e utilizzo di dati, informazioni e contenuti digitali, anche scaricati dal Web” dal 48,3%, la “gestione, elaborazione e classificazione di dati, informazioni e contenuti digitali in ambiente Web” dal 45,7%. Anche nel caso delle competenze digitali di base i livelli di criticità sono bassi, inferiori al 9%.

Effetti della digitalizzazione sulla struttura occupazionale
Un altro tema strettamente legato alla diffusione delle tecnologie digitali è quello relativo al loro potenziale impatto sulla struttura occupazionale delle imprese in termini di mansioni. In generale, si suppone che la digitalizzazione, ma anche l’automazione, possano ridurre le mansioni più “routinarie” aprendo prospettive di sviluppo per nuove mansioni di tipo più creativo.

Nell’ambito del censimento, l’Istat ha potuto raccogliere alcune evidenze, anche se necessariamente condizionate da una prospettiva di breve periodo (con riferimento a cambiamenti attesi tra il 2019 e il 2021) per un fenomeno che dovrebbe essere correttamente analizzato in una prospettiva almeno decennale. Il quesito è stato posto a imprese che hanno effettuato investimenti in tecnologie digitali nel triennio 2016-2018 o prevedono di investire nel triennio 2019-2021 con riferimento alle loro aspettative.

In termini di mansioni, sono stati identificati cinque grandi gruppi a cui fa spesso riferimento la letteratura sul tema: mansioni professionali specializzate; mansioni di interazione e comunicazione; mansioni tecnico-operative; mansioni manuali non specializzate; mansioni manuali specializzate

Ovviamente, le mansioni tecnico-operative e quelle manuali non specializzate sono quelle più “routinarie” e, in quanto tali, più facilmente sostituibili, in teoria, in un processo di digitalizzazione/automazione. I risultati del censimento contraddicono, in realtà, tale ipotesi teorica (forse in relazione sia all’ancora scarsa “maturità” digitale delle imprese italiane che alla ridotta prospettiva temporale) .

 

Infatti, le mansioni con le migliori prospettive sembrano essere quelle tecnico-operative (incremento previsto nel 67,6% delle imprese, decremento previsto nel 20%) e ciò può indicare una domanda crescente di personale tecnico da parte delle imprese italiane. Seguono le mansioni manuali non specializzate, tipicamente routinarie (con un incremento previsto dal 61,3% e una diminuzione per il 27,6%) e le mansioni di interazione e comunicazione (+60,5%, -25%) messe anch’esse, in teoria, a rischio dalle nuove tecnologie.

Meno dinamiche appaiono in prospettiva le mansioni potenzialmente più creative. Quelle professionali specializzate si espanderanno per il 53,2% delle imprese e si contrarranno per il 32,6%. Maggiore turbolenza potrebbe invece investire le mansioni manuali specializzate, anche a causa della loro elevata eterogeneità: in crescita per il 49,1% delle imprese e in riduzione per il 42,4%.

Anche qui il fattore dimensionale influenza molto le risposte delle imprese: quelle con 10-19 addetti sono molto più pessimiste delle altre mentre le grandi prevedono un impatto della digitalizzazione sull’occupazione assai più contenuto. Tale discrimine può essere individuato anche nella valutazione della singola tipologia di mansione, come nel caso delle mansioni professionali specializzate che sono relativamente stabili nelle imprese con almeno 50 addetti mentre si fanno più a rischio nelle imprese sotto tale soglia.

Come la digitalizzazione modifica la selezione e la gestione del personale
Nel corso del processo di transizione digitale, le imprese sono chiamate a ridefinire sostanzialmente il modo in cui selezionano e gestiscono il personale. Nuovi compiti, nuove competenze e nuove figure professionali -in parallelo con l’obsolescenza di forme di lavoro del passato – devono indurre le imprese a vedere nei propri dipendenti un asset per raggiungere la maturità digitale. Il censimento ha voluto esplorare se alcuni cambiamenti di approccio dal lato delle imprese siano già visibili.

In generale emerge un quadro piuttosto conservatore delle pratiche di gestione del personale utilizzate dalle imprese italiane anche se, ancora una volta, le differenze per classe dimensionale sono evidenti.
Infatti, in risposta a una crescente domanda di competenze digitali, il 38,3% delle imprese (51,3% degli addetti e 55,1% del valore aggiunto) dichiara che presterà maggiore attenzione a tali competenze in fase di selezione del personale (60,1% tra le imprese con più di 500 addetti) mentre il 33,6% (44,5% degli addetti totali) prevede

di esternalizzare le funzioni digitalizzate utilizzando le competenze digitali di consulenti o collaboratori (che è soltanto la quarta opzione per le imprese con 500 addetti e oltre) . Inoltre, il 22,7% delle imprese (41,1% degli addetti) ha in programma di incrementare gli investimenti in automazione, sia nei processi produttivi che nelle funzioni di servizio.

Considerando che come quarta opzione (22,2% delle imprese, 28,9% degli addetti) le imprese hanno indicato l’intenzione di avvalersi, per quanto possibile, della disponibilità del personale all’autoformazione, ovvero all’acquisizione autonoma di competenze digitali, il quadro complessivo è quello di un sistema delle imprese che, a fronte di rilevanti investimenti tecnologici, fatica a tenere il passo con adeguati investimenti per la valorizzazione del capitale umano.

L’investimento sistematico in formazione digitale per aumentare le competenze del personale è, infatti, solo la quinta opzione indicata dai rispondenti (21,6% delle imprese, 40,7% degli addetti) anche se, significativamente, la seconda più rilevante per le imprese con 500 addetti e oltre (54,0% delle imprese, che vale il 59,6% degli addetti delle grandi imprese e il 65,0% del loro valore aggiunto). Ѐ infine residuale (2,0% delle imprese) la scelta di accelerare il turnover tra personale con competenze obsolete e nuovo personale con migliori competenze digitali.

Anche questi dati confermano che il processo di transizione al digitale delle imprese italiane non ha le caratteristiche che possano consentire a molte di esse di raggiungere, in tempi brevi, lo stadio di “maturità”.
La limitata dimensione d’impresa condiziona ancora fortemente il sistema produttivo, non tanto per l’acquisizione di tecnologie digitali infrastrutturali quanto per un pieno utilizzo delle potenzialità delle tecnologie applicative. Emerge la mancanza di una cultura dell’investimento in capitale intangibile, e in primo luogo in capitale umano, per il quale sarebbero peraltro accessibili molteplici forme di sostegno pubblico.

L’impatto economico delle piattaforme digitali
Il monitoraggio delle vendite elettroniche, già oggetto di indicatori annuali Istat, viene arricchito dal censimento con un focus sull’utilizzo, da parte delle imprese con almeno 3 addetti, di piattaforme digitali di intermediazione commerciale, ovvero i siti Web attraverso cui una percentuale crescente di famiglie e imprese acquista beni e servizi.

L’approccio adottato è quello di individuare e profilare non le piattaforme digitali – con sede in Italia o all’estero – in quanto tali, ma piuttosto i soggetti economici italiani che, in alternativa o in aggiunta ai tradizionali canali commerciali, vendono i loro beni e servizi anche tramite piattaforme digitali. Ciò rende possibile analizzare tali imprese da due punti di vista: uno economico, sulla base della loro classificazione settoriale e dimensionale, e uno merceologico, grazie alla tipologia di piattaforme digitali che utilizzano per le loro vendite.

Il censimento ha consentito quindi all’Istat di stimare che, nel 2018, 99.814 imprese con 3 addetti e oltre – di cui 75.206 con meno di 10 addetti – hanno messo in vendita i loro beni o servizi su almeno una piattaforma digitale. Considerando la popolazione delle imprese censite, si tratta di quasi un’impresa su 10 attiva su piattaforme digitali (9,7% di imprese con 3 addetti e oltre, 11,6% di imprese con almeno 10 addetti).

Il volume di attività generato da tali imprese sulle piattaforme digitali è stimabile – con riferimento, però, alle sole imprese con 10 addetti e oltre – intorno al 2,4% del fatturato totale 2018, per un valore complessivo superiore ai 44 miliardi di euro. I dati totali offrono un quadro del fenomeno che va però letto soprattutto con riferimento ai settori più direttamente coinvolti ovvero quelli dove la vendita di beni e servizi tramite piattaforme digitali sta divenendo una componente essenziale delle strategie di commercializzazione delle imprese.

Il comparto turistico e della mobilità è quello più direttamente interessato, è presente su piattaforme digitali l’80% delle imprese con oltre 3 addetti attive nei servizi di alloggi . Inoltre, considerando le imprese con almeno 10 addetti, proviene da piattaforme digitali il 24% del fatturato totale del settore (con riferimento, quindi, a tutte le imprese indipendentemente dalla presenza su una piattaforma), quota che sale al 27,7% a livello di singola impresa (ovvero con riferimento alle sole imprese che utilizzano piattaforme).

I risultati confermano che per le imprese di alcuni settori è assolutamente necessario confrontarsi con i propri concorrenti sulle piattaforme digitali ma tenendo attivi anche gli altri canali commerciali, tradizionali e online. Nel trasporto aereo, il 46,9% delle imprese utilizza le piattaforme (praticamente tutte le imprese che offrono servizi di trasporto alle persone) con tassi di fatturato anche più alti rispetto ai servizi ricettivi: 26% sul totale del settore e 30,7% come media a livello d’impresa per le imprese presenti su piattaforme digitali.

Un altro esempio è quello delle agenzie di viaggio, che rappresentano un interessante caso di doppia intermediazione: la presenza sulle piattaforme serve a entrare in contatto con clienti a cui fornire, insieme alla propria consulenza, anche servizi forniti da terzi. La presenza complessiva è del 38,9% riguardo al numero di imprese; i tassi di fatturato sono del 10,9% (totale) e del 25,1% (media d’impresa).

Scorrendo la lista delle attività economiche considerate si possono poi identificare altre tipologie ricorrenti. Una prima è rappresentata dai settori con una significativa presenza sulle piattaforme digitali ma le cui imprese realizzano un fatturato assai basso (o spesso quasi nullo) tramite esse (attività editoriali, commercio di autoveicoli, produzione di bevande e alimentari…) al solo fine di aumentare la propria visibilità sul mercato, anche in presenza di basse aspettative sui relativi risultati economici.

Una seconda tipologia riguarda invece le imprese che realizzano interessanti tassi di fatturato nonostante una presenza contenuta sulle piattaforme digitali (ad esempio, produzione di software, noleggio di macchinari, telecomunicazioni, trasporto marittimo e servizi informatici in genere). In questi casi si tratta di mercati dominati da grandi imprese che operano prevalentemente su piattaforme digitali specializzate; a prescindere dall’impatto economico a livello di settore, le imprese che occupano tali nicchie di mercato riescono, in media, a realizzare quote di fatturato via piattaforme tra il 15% e il 25%.

Una terza tipologia è quella dei settori in una fase iniziale, almeno in Italia, in merito all’utilizzo di piattaforme (ad esempio, il commercio di autoveicoli, le attività immobiliari, l’ingegneria civile e le costruzioni). Nell’incertezza su quale modello organizzativo si consoliderà per questi settori – comparazione delle offerte su piattaforme digitali che consentono di acquistare direttamente beni o servizi oppure sviluppo di siti Web che offrono solo la comparazione dei prezzi di vendita senza vendita diretta – si osserva che diverse imprese già raggiungono quote di fatturato significative (tra il 10% e il 20%) dalla loro attività su piattaforme digitali.

Vale, infine, la pena porre attenzione su due aspetti solo parzialmente messi in evidenza dai dati censuari. Il primo è quello dell’offerta di servizi professionali e tecnici. I dati riguardanti la vendita di servizi di ingegneria o di architettura oppure informatici sottostimano con molta probabilità il crescente ricorso a piattaforme digitali per acquistare servizi di consulenza per operazioni immobiliari, di costruzione o ristrutturazione, sviluppo software ma anche prestazioni mediche o consulenze legali. Ovviamente, molti di questi servizi sono offerti da professionisti che operano come imprese individuali e in quanto tali escluse dal censimento. La portata economica e sociale di questo fenomeno potrà essere quindi colta solo con rilevazioni settoriali.

Il secondo riguarda l’impatto limitato che le piattaforme digitali sembrano avere avuto nel 2018 sul settore della ristorazione: soltanto il 12,1% delle imprese ha dichiarato di utilizzarle e anche in termini di fatturato i risultati non sono brillanti: appena il 2,2% per l’intero settore (anche se solo con riferimento alle imprese con almeno 10 addetti) e il 12,8% come media a livello d’impresa. Su questi risultati incide senz’altro la dimensione media delle imprese, dal momento che gli operatori del settore utilizzano estesamente rapporti di lavoro non dipendente e ciò contribuisce a portare molte imprese fuori dal campo di osservazione censuaria.

Un ulteriore aspetto che meriterà di essere affrontato con indagini settoriali è quello della percezione, nel settore della ristorazione, del ruolo delle piattaforme digitali. Infatti, le piattaforme offrono un doppio servizio in questo settore: intermediazione commerciale e consegna dei pasti a domicilio. I modelli di business adottati in Italia dalle principali piattaforme rendono i due servizi difficilmente distinguibili (tra l’altro la quota pagata dal ristoratore copre i costi di entrambi) e possono indurre i titolari di imprese a non considerarsi pienamente coinvolti nell’attività di una piattaforma poiché vista essenzialmente come agenzia di consegna pasti.

Rispetto alla valutazione dei risultati, il 17,3% delle imprese con 10 addetti e oltre stima che l’attività sulle piattaforme digitali abbia consentito di incrementare il fatturato totale di oltre il 10% (18,2% per le imprese con 10-19 addetti). L’impatto economico è comunque da considerarsi limitato perché il fatturato di queste imprese è complessivamente pari solo all’11,9% del totale delle imprese con almeno 10 addetti.

Il rafforzamento della posizione competitiva, un risultato spesso determinato anche soltanto dalla presenza di un’impresa sul sito Web di una piattaforma digitale, è un risultato acquisito dal 41,1% delle imprese (45,9% in termini di fatturato) e risulta particolarmente rilevante per quelle con oltre 500 addetti (61,5% delle imprese), a conferma che, almeno in alcuni settori, le piattaforme digitali sono vetrine in cui è necessario essere presenti per essere visibili alla potenziale clientela. L’utilizzo delle piattaforme digitali è invece un obiettivo fondamentale per il 30,8% delle piccole imprese, al fine di garantirsi un volume di vendite che consenta di rimanere attivi sul mercato (33,5% per le imprese con 10-19 addetti, ma solo 18,1% in termini di fatturato).

La potenzialità più interessante offerta dalla quasi totalità delle piattaforme digitali di aprire a soggetti anche di piccole dimensioni aziendali un mercato potenzialmente globale – non è molto sfruttata dalle imprese italiane: soltanto il 3,5% (4,4% del fatturato totale) dichiara, infatti, di aver acquisito nuovi clienti all’estero con la sua presenza su una piattaforma digitale. Bisogna notare che il quesito si riferiva ai nuovi clienti mentre è certa la presenza su piattaforme digitali commerciali di imprese italiane che hanno già clienti residenti all’estero.

L’analisi sinora svolta sulle imprese italiane che operano con piattaforme digitali non ha considerato la natura delle piattaforme a cui accedono tali imprese. La ricostruzione del legame tra un’impresa, come identificata in un registro statistico ufficiale, e una piattaforma digitale è un’operazione assai difficile considerando la varietà dei rapporti commerciali che possono instaurarsi tra l’impresa e la piattaforma (soprattutto in relazione ai diversi servizi che l’impresa può acquistare da una piattaforma), la diversità dei modelli di business adottati dalle piattaforme e la localizzazione stessa della piattaforma che, spesso, ha sede all’estero.

Senza adottare distinzioni predefinite in base alla tipologia o alla localizzazione delle piattaforme digitali considerate, si può osservare che la maggior parte delle imprese italiane con oltre 3 addetti che utilizzano piattaforme digitali (5,4% del totale dei settori considerati, pari a oltre 28 mila imprese, 10% delle imprese tra i 10 e 100 addetti) è presente su piattaforme internazionali che vendono servizi turistici (es. Booking.con, Expedia, TripAdvisor) o servizi di affitto a breve termine (es. AirBnB).

Esistono però anche piattaforme digitali italiane che, prevalentemente su base territoriale, svolgono attività di intermediazione sul Web tra strutture ricettive del territorio e potenziali clienti .

Un secondo gruppo, che comprende prevalentemente imprese manifatturiere, ma anche imprese del commercio che vendono attraverso piattaforme digitali, è composto da imprese che vendono i propri prodotti su piattaforme commerciali multi-settore (4% del totale delle imprese, 7% di imprese tra 250 e 500 addetti, 8,2% oltre i 500 addetti). L’esempio più comune in questa categoria di piattaforme è l’Amazon Marketplace (non Amazon in quanto rivenditore di beni acquistati dai propri fornitori), insieme a Ebay ed Etsy.

Un terzo gruppo (2,9% del totale dei settori considerati) include le imprese della ristorazione che utilizzano piattaforme per la prenotazione e la consegna di pasti a domicilio, come Deliveroo, Just Eat, Uber Eats e alcune piattaforme italiane operanti prevalentemente su base regionale.

Un quarto gruppo, che include circa 11 mila imprese con almeno 3 addetti (2% del totale e prevalentemente sotto i 10 addetti), è piuttosto composito, essendo riferito alle imprese che offrono i loro servizi su piattaforme digitali che vendono servizi professionali (es. ProntoPro o Fazland).

Un quinto gruppo comprende le imprese che producono e/o vendono prodotti per la casa, inclusi mobili, e prodotti del settore della moda. Sono l’1,3% delle imprese dei settori considerati per un totale di circa 5 mila imprese. Per quanto riguarda l’intermediazione, le piattaforme esistenti (es. Westwing) si stanno rapidamente

trasformando in e-shop tradizionali, quindi rivenditori, lasciando spazio a piattaforme commerciali gestite direttamente da consorzi di produttori.

Un sesto gruppo riguarda la vendita online specializzata di elettronica, ottica e strumentazione scientifica, settore dove operano anche piattaforme digitali nazionali. Le imprese interessate sono necessariamente poche, circa 3.500, lo 0,9% dei settori considerati.

Nel trasporto di persone (incluso il trasporto aereo) le piattaforme digitali gestiscono poco più di mille imprese (lo 0,4% di un gruppo molto composito di settori considerati nel censimento). Le piattaforme più attive sono quelle internazionali specializzate in servizi turistici e, soprattutto, nella vendita di biglietti aerei (es. Volagratis, Skyscanner).
Infine, un ultimo gruppo riguarda la consegna di prossimità di prodotti vari (es. Glovo, TakeMyThings), evidentemente utilizzata più da privati per le loro consegne, che da imprese (0,2% sul totale delle imprese).

Anche da questa sintetica rassegna emerge il quadro di un settore molto dinamico per cui è difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di lungo periodo, pur all’interno di una tendenza generale all’espansione delle attività commerciali via Web. Ad integrazione del quadro fornito dal censimento, l’approfondimento di alcuni temi – anche di rilievo politico-normativo, come la regolamentazione del lavoro all’interno delle piattaforme digitali – sarà possibile solo attraverso il ricorso a ulteriori indagini settoriali.




Bollette della luce gonfiate: cinque consigli per evitare fatture elevate

Le fatture dell’energia elettrica potrebbero riservare delle sorprese: dai consumi presunti, all’applicazione di clausole contrattuali errate, fino alla pretesa di arretrati oltre i due anni. Come farsi rispettare? Una guida con i consigli pratici degli esperti SOStariffe.it per pagare il giusto e pretendere, nel caso, il rimborso delle cifre ingiustamente versate

A partire dal primo aprile l’Arera, l’Authority di settore, ha rivisto al ribasso le tariffe della luce per il secondo trimestre del 2020 (-18,3%) per i clienti in regime di maggior tutela. Dunque almeno per il mercato tutelato, le bollette dell’energia elettrica dovrebbero essere più leggere. Ma ciò non sempre accade. Come mai? La fattura della luce potrebbe essere gonfiata rispetto ai consumi reali. SOStariffe.it ha stilato un elenco di cinque regole d’oro per smascherare i costi aggiuntivi e accertarci così di star pagando il giusto.

I consumi si controllano così
Anzitutto è buona norma imparare a leggere con attenzione la bolletta, per evitare di pagare ciò che non si deve, anche se siamo passati al mercato libero e abbiamo sottoscritto un’offerta luce conveniente. Teniamo conto che tra le voci di costo riportate sulla fattura ce ne sono alcune fisse:
– il costo della materia prima, deciso dal fornitore di energia e indicato sul contratto firmato;
- la spesa per trasportare l’energia dalle centrali a casa;
- quella per lettura e gestione del contatore, che cambia con i consumi;
- gli oneri di sistema.
A queste voci costanti si aggiungono poi diverse imposte, come l’IVA e le accise a cui di recente si è aggiunto il canone RAI che costa 90 euro all’anno, ma si paga 9 euro per volta in 10 mesi. Le bollette hanno un genere una periodicità bimestrale. I consumi riportati devono essere effettivi, cioè corrispondere ai valori riportati dal contatore.

Ricordarsi di comunicare l’autolettura
Le fatture potrebbero non essere ‘fedeli’ all’energia effettivamente consumata, ma basarsi invece su un calcolo presuntivo dell’energia stimata nel periodo considerato. I consumi riportati in bolletta infatti, possono comprendere sia i kWh effettivamente impiegati che quelli solo stimati.

Per scoprirlo dobbiamo tenere sotto controllo il contatore. Il modo per farlo è l’autolettura: ovvero comunicare al fornitore i dati riportati volta per volta sul nostro contatore. Controllare ogni bimestre il contatore ci aiuterà ad accorgerci se i valori riportati in bolletta non corrispondono al consumo reale. Se dovessimo notare delle difformità, rivolgiamoci al servizio clienti del nostro fornitore per farci inviare una nuova bolletta con i consumi effettivi. Pretendiamo inoltre il rimborso delle somme versate per errore.

Ad oggi i contatori della luce sono in molti casi smart meter, cioè contatori elettronici tele-gestiti, letti a distanza dal fornitore. Ce ne sono in servizio oltre 35 milioni. Se disponiamo di un contatore elettrico telegestito non dobbiamo comunicare nessuna lettura, poiché lo smart meter trasmette i dati rilevati in tempo reale ogni quarto d’ora e le fatture sono emesse in base ai consumi effettivi.

Ad ogni modo se vogliamo leggere quanto stiamo consumando, la gran parte dei modelli di contatore elettronico dispongono di un tasto grigio vicino al display, premendo il quale si potranno visualizzare il codice cliente, la potenza massima del contatore, e i dati di consumo in corrispondenza dei simboli A1, A2 e A3 che indicano la quantità di energia usata nelle varie fasce orarie (rispettivamente F1, F2 ed F3).
Se in casa abbiamo ancora il vecchio contatore tradizionale, invece, è importante ricordarsi di comunicare le cifre prima della virgola. Tutti i gestori mettono a disposizione appositi canali per trasmettere i dati rilevati: un numero telefonico, un’app per tablet e smartphone oppure un’area del proprio sito.

È la tariffa giusta per noi? Verificare il profilo di consumo
Al momento della firma del contratto ci viene assegnato un profilo di consumo, che poi ritroveremo riportato in bolletta, insieme al tipo di offerta sottoscritta, alla tensione della fornitura elettrica e alla potenza impegnata.

In genere si distingue tra uso domestico residente e non residente. Tuttavia il profilo che è stato selezionato in fase di firma del contratto potrebbe non essere applicato correttamente. Se le condizioni non vengono rispettate dobbiamo inviare un reclamo al fornitore. Al reclamo si dovranno allegare i documenti che attestano l’assegnazione del profilo a cui facciamo riferimento. Potremmo inoltre anche esigere un eventuale rimborso del prezzo ingiustamente pagato per l’errore del fornitore.

Come scoprire il fornitore non sta ai patti
Al pari del profilo di consumo, è importante controllare anche l’applicazione di tutte le altre clausole del contratto. Se ad esempio abbiamo stipulato un contratto di fornitura di energia con tariffa monoraria e nella bolletta ritroviamo la ripartizione dei consumi su due fasce orarie, allora c’è evidentemente un errore di applicazione delle clausole del contratto. Non ci resta che rivolgerci al servizio clienti del nostro fornitore o inoltrare un reclamo.
Bollette prescritte in 2 anni

A partire dal 2019 le bollette della luce si prescrivono in due anni e non più in cinque. Il diritto al pagamento del corrispettivo da parte del fornitore dunque viene meno passati i due anni dall’emissione. Se il fornitore ci richiede arretrati più vecchi di 24 mesi non siamo tenuti a pagare, né la compagnia potrà sospendere l’erogazione dell’energia per morosità. In caso in cui si riceva in bolletta la richiesta di pagare un importo caduto in prescrizione, bisognerà inviare un reclamo tramite raccomandata con ricevuta di ritorno.
Usare un comparatore per passare al mercato libero

 




Istat: ancora in aumento la spesa per il welfare locale

Per il quarto anno consecutivo la spesa dei comuni per i servizi sociali è in crescita, raggiungendo i livelli registrati negli anni precedenti la crisi del 2011-2013. 

Nel 2017, la spesa dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a circa 7 miliardi 234 milioni di euro, corrispondenti allo 0,41% del Pil nazionale (dati provvisori).

La spesa di cui beneficia mediamente un abitante in un anno è pari a 119 euro a livello nazionale, con differenze territoriali molto ampie. La spesa sociale del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia: 58 euro contro valori che superano i 115 euro annui in tutte le altre ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro. 

In ulteriore crescita la spesa sociale dei Comuni

Il comparto degli interventi e dei servizi socio-assistenziali, regolato principalmente dalla Legge quadro n.328 del 2000, è fortemente decentrato a livello locale. I Comuni e le associazioni sovracomunali gestiscono la spesa sociale attraverso un ventaglio di prestazioni variabile sul territorio.

Le Regioni hanno in capo funzioni di programmazione, con propri assetti normativi e organizzativi per l’offerta dei servizi socio-assistenziali. A livello centrale restano invece, ancora indeterminati, i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) previsti dalla stessa Legge quadro come standard minimo da garantire su tutto il territorio nazionale.

Rispetto alla media europea, l’Italia destina alla protezione socialei una quota importante del Prodotto interno lordo (il 29,1% contro il 27,9% della media Ue).

Sebbene la quota di spesa per i trasferimenti monetari e soprattutto per le pensioni di anzianità e vecchiaia (poco meno del 16% del Pil) sia elevata, il nostro paese si colloca invece tra quelli con i livelli più bassi di spesa per servizi sociali.

 

Nel 2017, la spesa dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a circa 7 miliardi 234 milioni di euro, pari allo 0,42% del Pil nazionale.

La spesa è aumentata del 2,5% sul 2016 (circa 177 milioni di euro). In termini pro capite, le risorse destinate alla rete territoriale di interventi e servizi sociali sono passate da 116 a 119 euro per abitante. Prosegue dunque la ripresa iniziata nel 2014, che ha riportato gradualmente la spesa sociale a livelli precedenti al declino registrato nel triennio 2011-2013.

I principali destinatari della spesa sociale dei Comuni per l’anno 2017 sono famiglie e minori, anziani e persone con disabilità che assorbono l’82% delle risorse impegnate. 

La spesa rimanente è dedicata per il 7,4% all’area Povertà e disagio adulti, il 4,8% ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, in minima parte (0,3%) a interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,5% alle attività generali e a una multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.). 

La spese rivolte ai diversi tipi di utenza hanno fatto registrare tassi d’incremento variabili. 

L’area Famiglie e minori ha avuto una crescita più contenuta (+1,1%) rispetto alla spesa complessiva (+2,5%). Continua ad aumentare la spesa per l’assistenza ai disabili (+4,1%), confermando l’andamento positivo registrato dall’avvio della rilevazione, ovvero dal 2004.

Le risorse destinate agli anziani, che per sei anni consecutivi a partire dal 2011 avevano subito un contenimento, crescono di circa 74 milioni di euro rispetto all’anno precedente (+4,7%).

Diminuiscono invece leggermente nell’ultimo anno (-0,1%) le spese per il contrasto alla povertà e per il disagio adulti, dopo un lieve incremento nel biennio precedente. 

Nell’ambito dei servizi rivolti agli immigrati, le spese restano sotto il 5% della spesa sociale dei Comuni, ma continuano a crescere con valori in linea con l’incremento della spesa totale (+2,7%). 

Più di un terzo della spesa totale per famiglie con figli e minori 

La quota più ampia della spesa sociale dei Comuni è assorbita dai servizi per i minori e le famiglie con figli: circa 2,8 miliardi di euro, pari al 38,2% della spesa complessiva.

Le regioni del Centro sono quelle che destinano maggiori quote di spesa a quest’area di utenza (43%), in particolare l’Umbria (51,1%) e il Lazio (45,2%).

Le risorse per i minori e le famiglie con figli aumentano decisamente in termini pro-capite, passando da 121 euro l’anno del 2010 a 141 nel 2017.

Tuttavia tale incremento è riconducibile in parte alla progressiva diminuzione della popolazione di riferimento, cioè i componenti delle famiglie con minori, mentre la spesa in valore assoluto ha subito un calo nel triennio 2012/2014 e non ha ancora recuperato del tutto il livello del 2010.

Oltre la metà della spesa è destinata alle strutture (53%), in particolare asili nido e altri servizi educativi per la prima infanzia (37%), comunali o privati convenzionati, che accolgono circa il 13,5% dei bambini con meno di 3 anni.

Un’altra importante voce di spesa (il 22%) riguarda le strutture residenziali comunali e le rette pagate dai Comuni per l’ospitalità offerta a bambini, adolescenti e donne con figli in Comunità educative e centri di accoglienza.

Tra gli altri interventi e i servizi rivolti alle famiglie e ai minori, il servizio sociale professionale raggiunge il maggior numero di utenti: 766 mila bambini e nuclei familiari in difficoltà presi in carico dagli assistenti sociali e indirizzati verso specifici percorsi di inclusione e supporto.

Continua a crescere la spesa per i servizi ai disabili 

Dal 2016 al 2017 aumenta ancora la spesa dei Comuni rivolta ai disabili (+4,1%). 

I Comuni italiani nel loro complesso hanno impiegato maggiori risorse per le persone con disabilità: da un miliardo e 23 milioni di euro nel 2003 si passa nel 2017 a circa un miliardo e 871 milioni di euro.

In termini pro capite, la spesa annua per una persona disabile residente in Italia è più che raddoppiata, passando da 1.478 a 3.140 euro; parallelamente aumenta il peso di questa area di utenza sul totale della spesa sociale dei Comuni: dal 19,7% del 2003 si passa al 25,9% del 2017, con punte del 36,7% nelle Isole e in particolare in Sardegna (45,9%).

La attenzione crescente dei Comuni verso i bisogni delle persone con disabilità è testimoniata anche dall’evoluzione delle forme assistenziali e dei sevizi, sempre più orientati a favorire l’autonomia personale e l’inclusione sociale degli utenti presi in carico, l’istruzione e l’inserimento lavorativo.

L’uso delle risorse ha consentito di sviluppare, accanto ai tradizionali strumenti di sostegno ai disabili e alle loro famiglie, quali i centri diurni e le strutture residenziali, un arricchimento della rete territoriale e la diffusione di servizi strategici per garantire alle persone con disabilità i diritti fondamentali, quali l’istruzione e l’inserimento nel mondo del lavoro. 

Dal 2003 al 2017, la spesa per l’assistenza domiciliare ai disabili è aumentata del 137%, quella per gli interventi educativo-assistenziali e per l’inserimento lavorativo del 117%.

All’interno di questo aggregato vi sono il sostegno socio-educativo scolastico, con cui i Comuni garantiscono la presenza nelle strutture scolastiche di figure di supporto ai bambini e ai ragazzi disabili (oltre 74 mila utenti l’anno), il sostegno socio-educativo domiciliare o presso strutture territoriali (circa 18 mila utenti l’anno) e il sostegno all’inserimento lavorativo (tirocini formativi, borse lavoro, bonus all’assunzione, ecc., con circa 29 mila utenti l’anno). 

Lo sviluppo di questi servizi, però, non è stato uniforme sul territorio nazionale. Ad esempio, nel 2017, il 76% dei Comuni del Nord-est offre il sostegno socio educativo scolastico per i bambini e i ragazzi disabili nelle scuole, nelle Isole soltanto il 40% dei Comuni ha attivato questo tipo di assistenza.

Aumenta la spesa sociale rivolta agli anziani

La spesa per i servizi sociali rivolti agli anziani ammonta a circa 1,3 miliardi di euro nel 2017. La quota sulla spesa sociale dei Comuni rappresenta il 17,9% del totale e raggiunge la quota più alta nel Nord-est (23%). 

Dopo una fase di decremento iniziato nel 2011, le risorse destinate agli anziani nel 2017 sono cresciute in un anno del 4,7%. In termini di spesa pro capite si è passati da 92 euro nel 2016 a 95 euro annui, con un aumento più consistente nelle regioni del Centro e del Nord-est, molto contenuto a Sud e una diminuzione nelle Isole e nel Nord-ovest.  

Le principali voci di spesa per l’area anziani riguardano le strutture residenziali, comunali o private convenzionate, che assorbono circa il 41% delle risorse. Risiede nelle strutture comunali o finanziate dai Comuni l’1,4% degli anziani residenti (+0,8% rispetto al 2016).

La seconda voce di spesa per i servizi sociali offerti agli anziani dai Comuni è l’assistenza domiciliare (35,6%) che ha come tipologia prevalente quella socio-assistenziale, e consiste nella cura e igiene della persona e nel supporto nella gestione dell’abitazione. 

In lieve diminuzione le risorse per il contrasto a povertà e disagio adulti

Nel periodo 2010-2017 la spesa dei Comuni per la povertà è diminuita del 5,6% a livello nazionale, sebbene dal 2015 si osservi una lieve ripresa. Le riduzioni di spesa si concentrano principalmente nelle regioni del Centro-sud e in Sicilia (sebbene la ripartizione delle Isole sia controbilanciata dall’aumento di spesa in Sardegna). 

A causa delle limitate risorse disponibili, i sistemi di welfare locali hanno svolto dunque una limitata funzione di compensazione dell’impatto della crisi sulle famiglie.

Quasi la metà della spesa comunale per la povertà e il disagio adulti riguarda i trasferimenti in denaro verso le famiglie: i più importanti sono quelli a integrazione del reddito familiare e i contributi economici per l’alloggio, con importi medi di circa 705 e 949 euro annui per utente, di cui beneficiano circa 147 mila e 48 mila famiglie l’anno rispettivamente. 

Circa un migliaio i Comuni che finanziano i centri antiviolenza 

A partire dalla rilevazione 2017, nell’area povertà, disagio adulti e senza dimora sono censiti due nuovi servizi: i centri antiviolenza, strutture che offrono servizi di ascolto e accoglienza per le donne vittime o esposte alla minaccia di ogni forma di violenza fisica e/o psicologica, e le case rifugio destinate a vittime di violenza di genere, strutture residenziali a indirizzo segreto, che forniscono alloggio sicuro e protezione alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini.

Le Case rifugio sono in stretto contatto con i Centri antiviolenza e gli altri servizi presenti sul territorio, al fine di garantire il necessario supporto psicologico, legale, sociale, educativo.

Nel 2017, la spesa dei Comuni destinata ai centri antiviolenza ammonta a circa 4,2 milioni, con una spesa media pari a 495 euro per utente. La spesa media per le donne ospiti delle case rifugio è di 4.945 euro, per un totale di 4 milioni di spesa.

Poco più di mille Comuni, pari al 13,2% del totale, hanno sostenuto una spesa per i centri antiviolenza, mentre sono meno di 300 (3,4%) quelli che offrono l’accoglienza in case rifugio o supportano finanziariamente tali strutture.

In totale, il 14,7% dei Comuni dichiara di aver sostenuto almeno un’attività di ascolto, accoglienza e protezione nei confronti delle vittime di violenza di genere.

regioni italiane ed è particolarmente rilevante in Sicilia. Infatti, negli anni successivi al 2014 sono state impiegate risorse aggiuntive provenienti dal “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati” (Sprar), che ha permesso ai Comuni e agli altri enti locali di realizzare progetti di accoglienza integrata attraverso i finanziamenti statali e dell’Unione europea. 

Il 46,5% della spesa sociale per quest’area di utenza è destinata alle strutture residenziali, gestite direttamente dai Comuni o affidate in gestione a soggetti esterni, oppure ai trasferimenti erogati per il pagamento delle rette in strutture private, di cui beneficiano circa 48 mila persone (una spesa media di 3.300 euro all’anno per utente).

Forti i divari territoriali della spesa sociale comunale

L’offerta dei servizi socio-assistenziali si caratterizza per un evidente divario fra Nord e Sud del Paese: più della metà della spesa è concentrata al Nord, dove risiede circa il 46% della popolazione, il restante 44% delle risorse è ripartito in misura variabile tra Centro e Mezzogiorno. I Comuni del Sud, dove risiede il 23% della popolazione italiana, erogano l’11% della spesa per i servizi sociali. 

In termini pro capite, la spesa sociale del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia: si tratta di 58 euro annui contro valori che superano i 115 in tutte le altre ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro.

Le differenze territoriali sono rilevanti per tutte le aree di utenza, con evidenti disparità a fronte degli stessi bisogni: in media una persona disabile residente al Nord-est usufruisce di servizi e interventi per una spesa annua di circa 5.222 euro, al Sud il valore dei servizi ricevuti è di circa 1.074 euro. 

All’interno di ogni ripartizione geografica i capoluoghi di provincia tendono a distinguersi dal resto dei Comuni per più alti livelli di spesa. I Comuni capoluogo nel loro complesso hanno una spesa media pro-capite di 174 euro l’anno, che si riduce drasticamente (del 45%) per l’insieme dei Comuni italiani non capoluogo (96 euro l’anno).

I differenziali di spesa sono rilevanti in quasi tutte le ripartizioni geografiche, in particolare al Centro e al Sud, dove i Comuni capoluogo spendono più del doppio rispetto al resto dell’area. Nelle Isole si riscontra invece una relativa uniformità di comportamento. 

Agli estremi della distribuzione si trovano dunque, da un lato i Comuni capoluogo del Nord-est, dove la spesa media pro-capite ammonta a 244 euro l’anno; dall’altro, i Comuni dell’hinterland del Sud Italia, con 45 euro l’anno di spesa per i servizi sociali. 

aumentano complessivamente dello 0,7% rispetto al 2016, ma mentre la Sicilia registra una crescita del 3,9%, in Sardegna si ha un calo del 2,5%.

Al Nord-est, la crescita di spesa sociale è dell’1,5% ma le differenze sono forti. Le Province Autonome di Bolzano e Trento, con una crescita di spesa del 15,5% e del 10,4%, rispettivamente, attenuano il calo del Veneto (-6,5%). Nel Nord-ovest, si ha una variazione negativa dell’1,9%. 

Le fonti di finanziamento: più della metà sono risorse dei Comuni 

La principale fonte di finanziamento della spesa sociale degli enti territoriali sono le risorse proprie dei Comuni e delle associazioni di Comuni (63,1%).

Seguono, in ordine di importanza, i fondi regionali (fondi provinciali nel caso di province autonome) vincolati per le politiche sociali, che finanziano il 17,7% della spesa sociale dei Comuni, il fondo indistinto per le politiche sociali (8,3%), i fondi vincolati statali o dell’Unione europea (6,9%), gli altri enti pubblici (2,7%) e i privati (1,3%). 

Sommando le quote relative al fondo indistinto per le politiche sociali e ai fondi statali o europei si deduce che solo il 15,2% della spesa impiegata per i servizi sociali risulta finanziata a livello centrale, mentre la maggior parte delle risorse provengono direttamente dai territori.

Nel corso degli anni, la spesa sociale dei Comuni singoli e associati ha subito variazioni in termini di fonti di finanziamento. In particolare, è diminuito il peso del fondo indistinto per le politiche sociali, dal 14% del 2010 all’8,3% del 2017.

Nelle regioni del Mezzogiorno, la quota finanziata con questo fondo è maggiore rispetto al Centro e al Nord, dove i Comuni basano maggiormente le politiche sociali sulle risorse proprie. Anche la percentuale di risorse derivanti dallo Stato o dall’Unione europea è più alta al Sud e nelle Isole rispetto al resto d’Italia.

Le province di Trento e Bolzano, nella loro autonomia, destinano quote elevate di risorse ai servizi socio-assistenziali.

Nella Provincia di Trento, dove il dato sulle fonti di finanziamento è disponibile, si rileva che l’83,1% dei finanziamenti deriva da fondi provinciali vincolati per le politiche sociali, il 9,9% da risorse proprie dei Comuni, l’l’1,6% da risorse degli enti associativi (Comunità di Valle) e meno del 5% dal fondo indistinto per le politiche sociali o da altri trasferimenti pubblici 




Tariffe biorarie, risparmi in calo: con le monorarie risparmi fino al 7,7%

Scegliendo una tariffa della luce monoraria a prezzo fisso è possibile risparmiare di più rispetto a una tariffa bioraria, cioè una promozione con un prezzo diversa a seconda della fascia oraria.

Le somme che è possibile mettere da parte inoltre, sono inversamente proporzionali ai consumi.

È quanto emerge dall’ultima indagine sui prezzi dell’energia elettrica realizzata da SosTariffe, che ha preso in esame tre diversi profili di consumo, con un fabbisogno energetico annuo via via maggiore.

Tre profili di consumo: come cambiano i risparmi possibili

Lo studio di SosTariffe.it è stato condotto a febbraio 2020 grazie all’ausilio dello strumento di comparazione delle offerte di energia elettrica. Si sono prese in considerazione solo tariffe luce del mercato libero. Il report analizza tre profili-tipo di consumo energetico, riferiti tutti e tre alla città di Milano. Si è posta a confronto cioè la spesa di tre diverse utenze.

Con un fabbisogno di energia elettrica crescente, rispettivamente di 1000 kWh (che potrebbe corrispondere ad un single che vive da solo), 2700 kWh (pari al consumo di una famiglia di 3-4 componenti) e 5000 kWh (quanto spende un nucleo di sette persone) ogni anno. L’indagine ha cercato di valutare la diversa convenienza tra una fornitura di energia elettrica in tariffa bioraria e una in tariffa monoraria. Sono state considerate cinque tra le offerte più economiche presenti sul mercato attuale.

Monoraria vs bioraria: cosa cambia tra le due tariffe

Di solito si definisce monoraria una tariffa di energia elettrica  la quale consente di pagare allo stesso prezzo la luce consumata in qualsiasi momento della giornata. La tariffa bioraria, come lo stesso nome lascia intendere invece, ha un prezzo dell’energia variabile a seconda dell’ora del giorno, che viene convenzionalmente diviso in tre fasce orarie. La fascia F1 è compresa tra le 8 e le 19; la F2 tra le 19 e le 8 nei giorni feriali. Infine la F3 comprende i weekend ei giorni festivi. La ripartizione in fasce tiene conto della richiesta di energia variabile nell’arco della giornata: statisticamente maggiore nelle ore di urne e inferiore di notte e nei festivi.

Single che vive da solo: con la monoraria risparmi fino al 7,72%

Rispetto ai primi anni in cui furono introdotte (dal 2010 in poi) le tariffe biorarie hanno perduto lungo la strada la propria convenienza. Ce ne accorgiamo esaminando i dati che emergono dall’analisi del primo profilo di consumo, da 1000 kWh all’anno. Un fabbisogno energetico annuale pari a quello di una persona che viva sola. Il single dello studio SosTariffe.it può scegliere tra cinque diverse proposte di tariffa bioraria dal costo medio di 230 euro annui (la più economica costa 216 mentre la più cara quasi 241).

Sono sempre cinque le proposte di tariffa monoraria prese in considerazione dallo studio. Il loro costo medio è di circa 213 euro, con un prezzo annuale che oscilla tra i 191 e i 222 euro. Di conseguenza la differenza media di prezzi tra la tariffa bioraria quella monoraria è del 7,72%. Pari alla somma che si può risparmiare optando per una tariffa monoraria a prezzo fisso.

Famiglia di 3-4 componenti: con la monoraria risparmi fino al 4,44%

Il secondo profilo di consumo ipotizzato potrebbe corrispondere a una famiglia di 3-4 componenti, che hanno bisogno ogni anno di circa 2700 kWh di energia elettrica.

Anche in questo caso sono sempre cinque le proposte tariffarie esaminate dal report. Per la bioraria il costo medio delle promozioni è di 467 euro (mentre la più conveniente costa 456, la più costosa si aggira intorno ai 481 euro). Anche nel caso del nucleo di 3 – 4 persone la tariffa monoraria permette di spendere meno, in media 447 euro ogni anno. Se teniamo conto infatti che la tariffa più economica ha un costo di 411 euro mentre la monoraria più cara si aggira sui 463, optare per il prezzo fisso nell’arco della giornata permette un risparmio del 4,44%. Notiamo dunque come al crescere del fabbisogno energetico, il risparmio possibile optando per una tariffa monoraria conveniente, subisca un decremento.

Famiglia numerosa: con la monoraria risparmi “solo” del 2,56%

Infine il terzo profilo di consumo, con un fabbisogno annuo di 5000 kWh. Potrebbe corrispondere a una famiglia molto numerosa, ad esempio un nucleo familiare di sette componenti. Nel caso della famiglia extra large i risparmi possibili sono minimi. Le tariffe biorarie a loro disposizione hanno un costo medio annuale di 840 euro (si va dalla promozione più economica da 818 a quella più dispendiosa da 861 euro). Per quanto riguarda invece le tariffe monorarie, i prezzi si aggirano intorno a una media annuale di 819 euro. Nel loro caso dunque il risparmio, minimo, è solo del 2,56%.

App e comparatore per scegliere l’offerta su misura

Se vogliamo risparmiare sui consumi domestici di luce, meglio optare per le offerte a prezzo bloccato, che consentono di mantenere fermo il prezzo dell’energia per un periodo prestabilito di 12 o 24 mesi. In ogni caso, se vogliamo ricercare i prezzi più bassi per le nostre esigenze di consumo, qualsiasi sia il nostro profilo di spesa luce, ed eventualmente valutare il passaggio a un fornitore del mercato libero, possiamo utilizzare il comparatore di SosTariffe.it, grazie al quale sono stati rilevati i dati di questa indagine.

 




Barometro Crif: il 2020 si apre con una crescita delle richieste di prestiti

Nel mese di gennaio il numero di interrogazioni registrate sul Sistema di Informazioni Creditizie di CRIF relativamente alle richieste di prestiti da parte delle famiglie italiane (nell’aggregato di prestiti personali e prestiti finalizzati) ha fatto segnare un +5,9% rispetto allo stesso mese del 2019.

Motore della performance positiva sono stati i prestiti personali (+9,7%), ma anche i prestiti finalizzati contribuiscono al risultato positivo, facendo segnare un +2,9%.
Andamento delle richieste di prestiti personali e finalizzati

L’ultima rilevazione fa però registrare una lieve frenata dell’importo medio richiesto, che nell’aggregato di prestiti personali e finalizzati risulta pari a 9.408 Euro (-2,7% rispetto allo stesso mese del 2019).

Entrando nel dettaglio, per quanto riguarda i prestiti finalizzati a gennaio il valore mediamente richiesto è stato pari a 6.914 Euro (-0,4% rispetto a gennaio 2019), mentre per prestiti personali si è attestato a 12.415 Euro (-5,8%).

LA DISTRIBUZIONE PER CLASSE DI DURATA
L’analisi della distribuzione delle richieste di prestiti per durata del finanziamento conferma che anche nel mese di gennaio è la classe superiore ai 5 anni quella in cui complessivamente si sono concentrate le preferenze degli italiani, con una quota pari al 26,2% del totale. In crescita l’incidenza dei piani di rimborso inferiori ai 12 mesi, che passano dal 15,8% del 2019 al 16,4%.

Per quanto riguarda i prestiti finalizzati, la classe in cui si è concentrato il maggior numero di richieste è quella inferiore ai 12 mesi, con il 22,7% del totale, malgrado un calo di 2,4 punti percentuali, mentre le richieste di prestiti personali si orientano sempre di più verso piani di rimborso superiori ai 5 anni, che arrivano a spiegare il 44,0% del totale.

“In questa fase caratterizzata da una veloce evoluzione dei comportamenti della clientela retail, gli istituti di credito stanno ponendo una grande attenzione verso quello che tecnicamente viene definito ‘instant lending’, dove si saldano le tradizionali dottrine di valutazione del merito creditizio con i nuovi paradigmi del credito veloce derivanti dall’entrata in vigore della PSD2, la nuova normativa europea che ha aperto l’era dell’open banking – commenta Simone Capecchi, Executive Director di CRIF -. Questo sta obbligando gli operatori di settore ad attrezzarsi con soluzioni e processi in grado di rispondere in modo sempre più tempestivo ed efficace alle esigenze della clientela”.




Tasse e Burocrazia costano alle imprese 138miliardi all’anno

Il micidiale mix di tasse e burocrazia ha superato la soglia dei 138 miliardi di euro; a tanto ammonta il costo che grava ogni anno sui bilanci delle imprese italiane, penalizzando, in particolar modo, le realtà di piccola e media dimensione.

Uno spaccato, quello fotografato dall’Ufficio studi della CGIA, che fa rabbrividire: a fronte di un gettito complessivo annuo di 81,2 miliardi di euro di tasse versate all’erario1, il costo annuo sostenuto dalle nostre imprese per la gestione dei rapporti con la Pubblica Amministrazione è di oltre 57 miliardi2. In buona sostanza “tasse & burocrazia” costituiscono un giogo da 138,3 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 8 punti di Pil, che zavorra le aziende e frena l’economia del Paese.

“Il Governo – sostiene il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – dovrebbe riflettere su questi dati e cominciare a lavorare per ridurne l’impatto. Se, a causa della situazione dei nostri conti pubblici, abbattere il carico fiscale in misura significativa non appare per nulla semplice, una drastica riduzione della cattiva burocrazia, invece, potrebbe essere ottenuta a costo zero, o quasi”.

Come? Prosegue Zabeo: “Riducendo il numero delle leggi attraverso l’abrogazione di quelle più datate, evitando così la sovrapposizione legislativa che su molte materie ha generato incomunicabilità, mancanza di trasparenza, incertezza dei tempi ed adempimenti sempre più onerosi, facendo diventare la burocrazia un nemico invisibile difficilmente superabile”.

Secondo “ The European House – Ambrosetti”, infatti, la produzione legislativa del nostro Paese non ha eguali nel resto d’Europa. In Italia, si stima vi siano 160.000 norme, di cui 71.000 promulgate a livello centrale e le rimanenti a livello regionale e locale. In Francia, invece, sono 7.000, in Germania 5.500 e nel Regno Unito 3.000. Tuttavia, la responsabilità di questa iper legiferazione è ascrivibile alla mancata abrogazione delle leggi concorrenti e al fatto che il nostro quadro normativo negli ultimi decenni ha visto aumentare esponenzialmente il ricorso ai decreti legislativi che, per essere operativi, richiedono l’approvazione di decreti attuativi. Questa procedura ha aumentato a dismisura la produzione normativa in Italia. Afferma il segretario della CGIA, Renato Mason:

“I tempi e i costi della burocrazia sono diventati un problema che caratterizza negativamente il nostro Paese, all’interno del quale coesistono situazioni molto differenziate tra Nord e Sud nonché tra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale. Nel Mezzogiorno, dove la Pa è meno efficiente, la situazione ha assunto profili particolarmente preoccupanti. Non è un caso, infatti, che molti investitori stranieri non vengano in Italia proprio per la farraginosità del nostro sistema burocratico che ha generato un velo di sfiducia tra le imprese private che non sarà facile rimuovere”.

Altrettanto preoccupanti sono i risultati che emergono dalla periodica indagine campionaria condotta da Eurobarometro (Commissione europea) sulla complessità delle procedure amministrative che incontrano gli imprenditori dei 28 Paesi dell’Unione. L’Italia si trova al2° posto di questa graduatoria (per l’86 per cento degli intervistati la cattiva burocrazia è un serio problema). Solo la Romania presenta una situazione peggiore della nostra, mentre il dato medio dell’Unione europea si attesta al 62 per cento3.

Nello specifico, cosa si potrebbe fare per migliorare l’efficienza della nostra Pubblica amministrazione, alleggerendo così i costi amministrativi delle aziende? Innanzitutto, come dicevamo più sopra, bisogna semplificare il quadro normativo. Cercare, ove è possibile, di non sovrapporre più livelli di governo sullo stesso argomento e, in particolar modo, accelerare i tempi di risposta della Pubblica amministrazione.

Con troppe leggi, decreti e regolamenti i primi penalizzati sono i funzionari pubblici che nell’incertezza si “difendono” spostando nel tempo le decisioni. Nello specifico è necessario:

  • migliorare la qualità e ridurre il numero delle leggi, analizzando più attentamente il loro impatto, soprattutto su micro e piccole imprese;
  • monitorare con cadenza periodica gli effetti delle nuove misure per poter introdurre tempestivamente dei correttivi;
  • consolidare l’informatizzazione della Pubblica amministrazione, rendendo i siti più accessibili e i contenuti più fruibili;
  • permettere all’utenza la compilazione esclusivamente per via telematica delle istanze;
  • procedere e completare la standardizzazione della modulistica;
  • accrescere la professionalità dei dipendenti pubblici attraverso

    far dialogare tra di loro le banche dati pubbliche per evitare la duplicazione delle richieste; un’adeguata e continua formazione.




Agenzia Entrate, Isa: tutti i dettagli per contribuenti e intermediari

Sono disponibili da oggi sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate i 175 modelli in versione definitiva per l’applicazione degli Indici sintetici di affidabilità fiscale (Isa).

Con il provvedimento di oggi, infatti, vengono approvati i modelli che dovranno essere utilizzati dai contribuenti che nel 2019 hanno esercitato in via prevalente una delle attività soggette agli Isa al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi.

Il provvedimento, inoltre, individua i dati rilevanti ai fini Isa per il periodo di imposta 2020 e definisce le modalità di acquisizione delle variabili “precalcolate 2020” per il periodo d’imposta 2019 e il programma delle elaborazioni degli Isa applicabili a partire dal periodo d’imposta 2020.

Modelli e istruzioni online – I 175 modelli sono disponibili con le relative istruzioni e costituiscono parte integrante della dichiarazione da presentare insieme ai modelli Redditi.

Dovranno essere utilizzati dai contribuenti soggetti agli indici, ovvero quelli che nel 2019 hanno esercitato in via prevalente una delle attività economiche del settore dell’agricoltura, delle manifatture, dei servizi, delle attività professionali e del commercio per le quali risultano approvati gli Isa (elenco allegato alle istruzioni Parte Generale).

Una volta compilati, i modelli dovranno essere trasmessi alle Entrate, in maniera telematica, insieme alla dichiarazione dei redditi, tramite i canali Entratel o Fisconline oppure incaricando un intermediario.

Le indicazioni per consultare e acquisire i dati “precalcolati” – Il provvedimento definisce, inoltre, le modalità per l’acquisizione degli ulteriori dati necessari all’applicazione degli indici per il periodo di imposta 2019, sia massivamente, attraverso i servizi telematici dell’Agenzia, che puntualmente, accedendo al proprio cassetto fiscale.

Nel primo caso gli intermediari in possesso della delega alla consultazione del cassetto fiscale del contribuente possono trasmettere all’Agenzia via web un file contenente l’elenco dei contribuenti per i quali ricevere i dati “precalcolati”.

Cosa sono gli Isa – Gli indici sintetici di affidabilità fiscale sono un insieme di indicatori che consentono di posizionare il livello dell’affidabilità fiscale dei contribuenti su una scala che va da 1 a 10, con l’obiettivo di stimolare la compliance e rafforzare la loro collaborazione con l’Amministrazione finanziaria.

I contribuenti che ottengono punteggi più alti risultano, infatti, più “affidabili” e per questo hanno accesso a importanti benefici premiali, come, per esempio, l’esclusione dagli accertamenti di tipo analitico-presuntivo, la riduzione dei termini per l’accertamento e l’esonero, entro i limiti fissati, dall’apposizione del visto di conformità per la compensazione dei crediti d’imposta.




Istat: a novembre gli occupati di 41mila unità

A novembre 2019, gli occupati crescono di 41 mila unità rispetto al mese precedente (+0,2%), con un tasso di occupazione che sale al 59,4% (+0,1 punti percentuali).

L’andamento dell’occupazione è sintesi di un aumento della componente femminile (+0,3%, pari a +35 mila) e di una sostanziale stabilità di quella maschile.

Gli occupati crescono tra i 25-34enni e gli ultracinquantenni, mentre calano nelle altre classi d’età; al contempo, aumentano i dipendenti permanenti (+67 mila) a fronte di una diminuzione sia dei dipendenti a termine (-4 mila) sia degli indipendenti (-22 mila).

In crescita risultano anche le persone in cerca di lavoro (+0,5%, pari a +12 mila unità nell’ultimo mese). L’andamento della disoccupazione è sintesi di un aumento per gli uomini (+1,2%, pari a +15 mila unità) e di una lieve diminuzione tra la donne (-0,2%, pari a -3 mila unità); crescono i disoccupati under 35, diminuiscono lievemente i 35-49enni e risultano stabili gli ultracinquantenni. Il tasso di disoccupazione risulta comunque stabile al 9,7%.

La stima complessiva degli inattivi tra i 15 e i 64 anni a novembre è in calo rispetto al mese precedente (-0,6%, pari a -72 mila unità), e la diminuzione riguarda entrambe le componenti di genere. Il tasso di inattività scende al 34,0% (-0,2 punti percentuali).

Anche nel confronto tra il trimestre settembre-novembre e quello precedente, l’occupazione risulta in crescita, seppure lieve (+0,1%, pari a +18 mila unità), con un aumento che si distribuisce tra entrambi i sessi. Nello stesso periodo aumentano sia i dipendenti a termine sia i permanenti (+62 mila nel complesso), mentre risultano in calo gli indipendenti (-0,8%, -43 mila); inoltre, si registrano segnali positivi per i 25-34enni e per gli over 50, negativi nelle altre classi.

Gli andamenti mensili si confermano nel trimestre anche per le persone in cerca di occupazione, che aumentano dello 0,3% (+7 mila), e per gli inattivi tra i 15 e i 64 anni, in diminuzione dello 0,4% (-59 mila).

Su base annua l’occupazione risulta in crescita (+1,2%, pari a +285 mila unità), l’espansione riguarda sia le donne sia gli uomini di tutte le classi d’età, tranne i 35-49enni. Tuttavia, al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età. La crescita nell’anno è trainata dai dipendenti (+325 mila unità nel complesso) e in particolare dai permanenti (+283 mila), mentre calano gli indipendenti (-41 mila).

Nell’arco dei dodici mesi, l’aumento degli occupati si accompagna a un calo sia dei disoccupati (-7,1%, pari a -194 mila unità) sia degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-1,5%, pari a -203 mila).

 




Tre famiglie su quattro vivono in una casa di proprietà

Il 75,2% delle famiglie, tre su quattro, risiede in una casa di proprietà. Nel 2016 la superficie media di un’abitazione è pari a 117 m2 e il suo valore medio è di circa 162 mila euro (1.385 €/m2). In generale, le abitazioni possedute da persone fisiche hanno un valore complessivo, includendo anche le relative pertinenze, di 5.526 miliardi di euro, mentre il valore complessivo del patrimonio abitativo supera i 6.000 miliardi.

Sono alcuni dei dati contenuti nella settima edizione di Gli Immobili in Italia, la pubblicazione biennale che fotografa il patrimonio immobiliare italiano realizzata dall’Agenzia delle Entrate e dal Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia in collaborazione con il partner tecnologico Sogei.

Il volume, che quest’anno analizza i dati relativi al 2016, offre un quadro della ricchezza, dei redditi, degli utilizzi e dei valori imponibili degli immobili attraverso l’elaborazione di diverse fonti informative, tra cui il Catasto Edilizio Urbano e le quotazioni dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, le dichiarazioni dei redditi, le banche dati dei versamenti delle Imposte sugli Immobili (IMU, TASI) e i dati del registro.

Come vengono utilizzati gli immobili – Quasi il 60% dei 57 milioni di immobili di proprietà di persone fisiche in Italia è utilizzato come abitazione principale o pertinenza. Secondo i dati indicati dai contribuenti nelle dichiarazioni dei redditi, infatti, circa il 34,2% degli immobili, pari a 19,5 milioni di unità, sono abitazioni principali, a cui si somma un ulteriore 23,3% relativo alle pertinenze (cantine, soffitte, box o posti auto), circa 13,3 milioni di unità. Ipotizzando che a ogni abitazione principale corrisponda un nucleo familiare, risulta che il 75,2% delle famiglie risiede in abitazioni di proprietà.

Gli immobili dati in locazione sono circa 6 milioni (10%), mentre 6,2 milioni (11%) sono quelli lasciati a disposizione. Infine, ammontano a circa 1,2 milioni, poco più del 2% del totale, gli immobili concessi in uso gratuito a familiari o ad altri comproprietari. Per quanto riguarda la distribuzione per aree territoriali, al Sud sono utilizzate come abitazione principale il 53,5% del totale delle abitazioni delle persone fisiche, al Nord e al Centro la quota è più elevata, rispettivamente 56,8% e 58,5%.

Quanto vale lo stock immobiliare in Italia – Nel 2016 il valore del patrimonio abitativo ammonta complessivamente a 6.004,4 miliardi, in leggero calo rispetto al 2015 (6.096,9 miliardi). Di questi, circa il 92%, pari a 5.526 miliardi si riferisce alle abitazioni e relative pertinenze di proprietà delle persone fisiche. Indipendentemente da chi sia il soggetto proprietario, poco meno del 50% del valore residenziale nazionale è concentrato al Nord, mentre il restante 50% è diviso tra l’area del Centro e l’area del Sud e delle Isole. Il patrimonio immobiliare residenziale più alto è in Lombardia (1.006,2 miliardi) e Lazio (761,8 miliardi).

Quanto vale mediamente un’abitazione – Nel 2016, un’abitazione in Italia vale mediamente 162 mila euro, con un valore unitario di 1.385 €/m2, in diminuzione dell’1,8% rispetto al 2015. Cali superiori al 3% si osservano nel Lazio, in Liguria e nelle Marche, in Toscana i valori perdono il 2,9% mentre per Veneto e Abruzzo la flessione è del 2,5%.

Sotto il 2% il calo nelle restanti regioni. Fanno eccezione solo la Lombardia, in cui il valore delle case è rimasto stabile, e il Trentino-Alto Adige, unica regione a segnare un aumento del valore medio, +0,8%. La superficie media di un’abitazione in Italia, calcolata come rapporto tra superficie complessiva e numero di unità abitative totali, è circa 117 m2. Le Regioni con abitazioni mediamente più grandi sono l’Umbria, il Friuli Venezia Giulia e il Veneto dove la superficie media è superiore a 130 m2. Le abitazioni di dimensioni mediamente più ridotte, sotto 100 m2, si riscontrano in Valle d’Aosta e Liguria.

Focus su Roma, Milano e Napoli – Anche in questa edizione, il rapporto contiene un’analisi più dettagliata rispetto ad alcune grandi città. Per quanto riguarda Roma, il valore complessivo delle abitazioni è pari a circa 460 miliardi.

La superficie media di un’abitazione ubicata nella capitale è 103 m2, con un valore medio di circa 323 mila euro (3.150 €/m2), superando i 740 mila euro nelle zone centrali più pregiate. Circa il 71% dello stock residenziale è impiegato come abitazione principale, il 14% delle abitazioni è data in locazione, e il 2,5% viene concesso in comodato ai familiari.

Superano, invece, la quota del 19% gli immobili dati in locazione a Milano e Napoli, mentre è più bassa la percentuale di case utilizzate come abitazione principale (rispettivamente il 66,1% e il 58,9%). Per quanto riguarda Milano, inoltre, il valore complessivo delle abitazioni stimato per il 2016 è pari a circa 207,4 miliardi di euro, con una superficie media per abitazione di 88 m2 e un valore medio di 261 mila euro (2.960 €/m2). Infine, a Napoli si evidenzia un valore complessivo delle abitazioni di circa 104,5 miliardi di euro. La superficie media di un’abitazione è 102 m2 e il valore medio 239 mila euro (2.353 €/m2).

L’identikit del proprietario…. – Nel 2016, dei 40,9 milioni che hanno presentato la dichiarazione dei redditi, oltre 25,8 milioni (il 63,1% del totale dei contribuenti) sono risultati proprietari di immobili o di quote immobiliari. I lavoratori dipendenti e i pensionati costituiscono l’82,5% dei proprietari di abitazioni (e relative pertinenze): più della metà dei proprietari risiede al Nord (50,7%), il 23,1% al Centro e il 26,2% al Sud e nelle Isole. Le donne proprietarie di abitazioni sono circa 800 mila in meno degli uomini ma in aumento rispetto al 2014.

Il valore delle loro abitazioni è maggiore, nonostante il reddito imponibile sia nettamente inferiore a quello degli uomini. In crescita sono, invece, i proprietari di abitazioni senza figli a carico che rappresentano il 76,6% del totale. Infine i proprietari di abitazioni con età inferiore ai 35 anni rappresentano il 6% della popolazione, quelli con età superiore ai 65 anni sono il 38% mentre quelli con età compresa tra i 35 e i 65 anni sono il 56%.

….e del locatore – Complessivamente nel 2016, gli individui locatori di immobili, in Italia, sono 4,3 milioni in lieve diminuzione rispetto al 2014. Il canone annuo medio risulta di circa 10,3 mila euro (da circa 9,7 mila euro del 2014). Il 42% dei locatori (circa 1,8 milioni) ha un’età compresa tra 51 e 70 anni; seguono i locatori con età compresa tra 31 e 50 anni e gli ultra settantenni (entrambe le categorie sono al 26%), mentre quelli con meno di 30 anni sono il 3% del totale.

La tassazione sulla casa – Dal 2016 il prelievo di natura patrimoniale sugli immobili si è ridotto di oltre 4,5 miliardi di euro a seguito principalmente dell’abolizione della Tasi sulle abitazioni principali non di lusso e di altre misure di alleggerimento del prelievo sugli immobili.

Le agevolazioni fiscali per ristrutturazioni e riqualificazione energetica e per interventi antisismici – Nel periodo 2007-2016 sono stati effettuati complessivamente 27,1 milioni di interventi per il recupero del patrimonio edilizio, per una spesa totale pari a 115,9 miliardi di euro circa e una spesa media per intervento di 4,3 mila euro. In particolare, nell’anno di imposta 2016, gli immobili per i quali sono stati dichiarati lavori di ristrutturazione sono quasi 1,5 milioni con un beneficio medio annuo (per immobile) di 465 euro.

Nel periodo 2013-2016 sono stati effettuati oltre 195mila interventi antisismici. L’ammontare totale di spesa per questa categoria di opere è pari a oltre 872 milioni di euro e la spesa media è di circa 4,4 mila euro. In particolare negli anni 2015-2016 gli immobili per i quali sono stati dichiarati interventi antisismici sono oltre 33mila con un beneficio fiscale medio annuo (per immobile) di 522 euro.