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Il Recovery Plan di Draghi ha un “gusto di futuro” per gli italiani

Èstato finalmente presentato anche alle Camere il nuovo PNRR del governo Draghi e entro il prossimo 30 aprile sarà inviato formalmente a Bruxelles. Dopo un duro lavoro, in tempi peraltro strettissimi, c’è stata la quadra anche attorno alla strategia, alla nuova narrativa ed alle modalità di implementazione (Obiettivi, milestone, target, etc.).

 

E’ un piano di investimenti ambizioso quello che l’Italia si appresta ad inviare in Europa. Ma non solo. Parallele viaggiano numerose riforme, senza le quali, gli investimenti rischiano di non portare frutti nel medio lungo periodo. Si tratta di uno strumento che mette in campo risorse finanziarie ingenti finalizzate ad accelerare la ripresa economica, rispondendo in modo, speriamo efficace, alla crisi pandemica provocata dal Covid-19.

Il PNRR italiano si inserisce all’interno del programma Next Generation EU (NGEU), che prevede per tutti i Paesi un totale di 750 miliardi di euro.

All’Italia spettano 191,5 miliardi di euro, finanziati attraverso lo strumento chiave del NGEU: il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza.
A questi si aggiungono ulteriori 30,6 miliardi che sono parte di un Fondo complementare, finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio che è stato approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile scorso.
Pertanto abbiamo a disposizione  222,1 miliardi di euro.

Mai abbiamo avuto la disponibilità di così tante risorse finanziarie da spendere in un tempo così ristretto (2021-2026) e con modalità di “messa a terra” (attuazione) che devono seguire precise indicazioni che noi stessi, come Paese, abbiamo scritto “nero su bianco” e consegnato all’Europa nella fase di progettazione e interlocuzione. Infatti, se da un lato il piano complessivo offre una visione di sintesi, strategica e narrativa del cosa si vuole fare, del “come” e del “quando” (i tempi di massima di realizzazione degli interventi), occorre anche considerare che il “back office del piano” prevede azioni di dettaglio di ogni singola fase e per ogni singolo progetto, sia esso di investimento o di riforma, con una scansione davvero rigorosa dei tempi e molto severa relativamente ai “deliverable” (prodotti) che devono essere raggiunti.

Quindi, non si può non concordare con Draghi quando dice che bisogna avere “il gusto del futuro” parlando del PNRR. Sono parole queste che hanno un significato intenso, che mirano a scuotere l’intero Paese: da un lato le pubbliche amministrazioni e i dipendenti pubblici che dovranno “abilitare” e mettere in campo le azioni previste dal Piano, dall’altro il tessuto imprenditoriale, che in molti casi e su diverse linee di azione, dovrà assicurare la realizzazione di progetti, molti dei quali ad elevata complessità. In questo senso, “il gusto di futuro” è quasi un voler far riflettere ciascuno di noi a riscoprire quel senso di appartenenza al nostro Paese, che va ben oltre le ideologie politiche e che mira a unire, più che dividere, rafforzando quel concetto di coesione sociale e favorendo quei progetti con impatto a carattere “strutturale”, che possano essere moltiplicatori di valore economico nel tempo, anche adottando paradigmi diversi di partnership rafforzate pubblico-privato, riducendo, al contempo, la corruzione e tutti i suoi effetti negativi su crescita, innovazione, qualità e competenze.

Proprio perché il piano vuole avere un “carattere strutturale”, esso include un numero consistente di riforme, certamente quasi scontate per gli addetti ai lavori, ma che rappresentano invece il bisogno di realizzare solide fondamenta su cui far poggiare tutti gli investimenti.

Si tratta di riforme da adottare negli ambiti della:

pubblica amministrazione (favorire il ricambio generazionale, valorizzare il capitale umano e professionale , attuare la digitalizzazione, realizzare la piattaforma unica di reclutamento, erogare corsi di formazione per il personale e rafforzare e monitorare la capacità amministrativa);
giustizia (ridurre la durata dei processi ed il peso degli arretrati giudiziari, rivedere il quadro normativo e procedurale aumentando il ricorso a procedure di mediazione e interventi di semplificazione sui diversi gradi del processo);
semplificazione normativa (semplificare la concessione di permessi e autorizzazioni, garantire attuazione e massimo impatto degli investimenti attraverso interventi sul codice degli appalti);
concorrenza (rafforzare la coesione sociale e sviluppare la crescita economica).

E’ un Piano che ha come principali beneficiari le donne, i giovani e il SUD e vuole contribuire a favorire l’inclusione sociale e a ridurre i divari tra i territori.
Il digitale assorbe il  27% delle risorse mentre il 40 % è dedicato agli investimenti per il contrasto al cambiamento climatico e dunque a favore della transizione ecologica, più del 10% sono indirizzati verso un tema estremamente importante in questo momento di crisi economica: la coesione sociale.

Il estrema sintesi, il Piano è articolato lungo le seguenti sei missioni:

“Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura”( 49,2 miliardi – di cui 40,7 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 8,5 miliardi dal Fondo). I suoi obiettivi sono promuovere la trasformazione digitale del Paese, sostenere l’innovazione del sistema produttivo, e investire in due settori chiave per l’Italia, turismo e cultura.

“Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica”, ( 68,6 miliardi – di cui 59,3 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 9,3 miliardi dal Fondo).I suoi obiettivi sono migliorare la sostenibilità e la resilienza del sistema economico e assicurare una transizione ambientale equa e inclusiva.

“Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile”(31,4 miliardi – di cui 25,1 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 6,3 miliardi dal Fondo).
Il suo obiettivo principale è lo sviluppo razionale di un’infrastruttura di trasporto moderna, sostenibile e estesa a tutte le aree del Paese ( Alta velocità, potenziamento linee ferroviarie regionali, sistema portuale e digitalizzazione catena logistica.

“Istruzione e Ricerca”(31,9 miliardi di euro – di cui 30,9 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 1 miliardo dal Fondo).
Il suo obiettivo è rafforzare il sistema educativo ( Asili nido, scuole materne, servizi di educazione e cura per l’infanzia, edilizia scolastica), le competenze digitali STEM, la ricerca e il trasferimento tecnologico.
Inoltre, è prevista una riforma dell’orientamento, dei programmi di dottorato e dei corsi di laurea. 
Si punta sui percorsi professionalizzanti post diploma degli Istituti tecnici superiori (da non confondere con gli istituti tecnici e professionali) e si rafforza la filiera della ricerca e del trasferimento tecnologico.

“Inclusione e Coesione”(22,4 miliardi – di cui 19,8 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 2,6 miliardi dal Fondo).
Il suo obiettivo è facilitare la partecipazione al mercato del lavoro, anche attraverso la formazione, rafforzare le politiche attive del lavoro e favorire l’inclusione sociale (centri per l’impiego, imprenditorialità femminile, servizi sociali ed ed interventi per le vulnerabilità, etc.).

Salute”( 18,5 miliardi, di cui 15,6 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 2,9 miliardi dal Fondo).
Il suo obiettivo è rafforzare la prevenzione e i servizi sanitari sul territorio, modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario e garantire equità di accesso alle cure (assistenza di prossimità diffusa sul territorio, case e ospedali di comunità, incremento assistenza domiciliare, telemedicina e assistenza remota, attrezzature nuove per diagnosi e cura, etc). 
Il Piano rafforza l’infrastruttura tecnologica per la raccolta, l’elaborazione e l’analisi dei dati, inclusa la diffusione del Fascicolo Sanitario Elettronico.

Per ciò che concerne la governance è prevista una responsabilità diretta dei ministeri e delle amministrazioni territoriali per la realizzazione degli investimenti e delle riforme secondo le scadenze previste mentre il Ministero dell’economia e delle finanze, attraverso un apposito sistema, avrà il compito di monitorare e controllare costantemente l’attuazione delle riforme e degli investimenti e funge da unico punto di contatto con la Commissione Europea.

Le premesse per fare bene ci sono tutte, occorre a questo punto augurarci buona fortuna e che “il gusto di futuro” abiliti entusiasmo e intelligenza collettiva in modo da assicurare una piena attuazione dei tanti e importanti progetti che, non senza fatica e ricercato consenso, sono stati programmati.

 




L’industria dei dati pubblici, il motore della riforma della PA

Aperti, aggiornati, strutturati, machine readable e corredati dai metadati: i dati prodotti dalle Pubbliche Amministrazioni, per essere realmente utilizzabili, dovrebbero avere almeno queste caratteristiche. Sono decenni, ormai, che si sente parlare delle numerose possibilità offerte dai dati e delle ricadute, in termini di conoscenza e di benessere collettivo, conseguenti alla loro condivisione.

Eppure, nonostante nel settore privato sia evidente il valore attribuito ai dati, talmente elevato da essere “pagato” con un corrispettivo in servizi gratuiti di ogni tipo, il settore pubblico sembra ancora troppo inconsapevole delle potenzialità informative di cui dispone e impreparato rispetto alle politiche da attuare.

In realtà, l’impreparazione è più che altro dovuta a una specie di ostruzionismo burocratico e formale che impedisce di definire degli accordi snelli e veloci tra le amministrazioni. Per questo, la condivisione dei dati, prima di arrivare alle questioni tecnologiche riguardanti la cooperazione applicativa, viene ostacolata da protocolli d’intesa manzoniani firmati e controfirmati da dirigenti, direttori e presidenti, che, nel migliore dei casi, richiedono mesi di tempo per essere formalizzati. Nel peggiore, le trattative terminano con un nulla di fatto.

C’è stato un periodo, circa quindici anni fa, in cui parlare di condivisione e open data andava di moda: chiunque si lanciava in riflessioni fantasiose e proiezioni spericolate di ogni tipo, a volte veniva perfino interpellato chi ne sapeva realmente qualcosa e che, proprio per questo motivo, è stato escluso dai consessi importanti. Poi, la moda è passata e la questione open data è stata considerata più o meno risolta.

Anche perché si è palesata una parola sicuramente più comunicativa, misteriosa e affascinante, il termine “big”, che ha avuto il potere di arrestare il processo di diffusione e di condivisione dei dati: tutto si è fermato ad alcune esperienze virtuose e a qualche file di testo che ancora resiste, eroicamente appeso alle pagine di un sito dimenticato, come una vecchia canottiera a costine stesa sui fili arrugginiti di una casa abbandonata. Come spesso accade, la normativa esiste ed è chiara: l’articolo I del CAD prevede che i dati aperti debbano essere:

disponibili con una licenza o una previsione normativa che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato;
accessibili attraverso le tecnologie digitali, comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti e provvisti dei relativi metadati;
resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie digitali, oppure resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione (salvo quanto previsto dall’articolo 7 del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36).

A dispetto delle norme, però, la situazione reale è ben diversa. In primo luogo perché all’interno delle PPAA non sembrano esserci molte persone che conoscano approfonditamente i dati e il loro ciclo di vita e siano in grado di attuare strategie di condivisione stabili e di lungo periodo. I dati prodotti e condivisi dalle istituzioni, almeno di quelle che fanno parte del Sistema Statistico Nazionale, dovrebbero garantire la qualità, la completezza dei metadati e il rispetto degli standard internazionali di diffusione.

Per produrre dei dati con queste caratteristiche, occorre industrializzare il processo di produzione e fare in modo che la diffusione non sia il compito di qualche volenteroso che inserisca manualmente un file di testo su uno dei tanti portali, ma la conclusione di un flusso informativo che passi per la raccolta, la validazione, l’archiviazione, la pubblicazione e, possibilmente, la visualizzazione.

Costruire “l’industria dei dati pubblici” è molto oneroso e impegnativo: la pandemia ha dimostrato ampiamente l’impreparazione del sistema Paese, soprattutto in una situazione di emergenza, nella costruzione di una metodologia di raccolta rigorosa e affidabile e di un sistema di validazione e di condivisione trasparente e strutturato. Questi limiti, in una condizione di normalità, devono spesso fare i conti anche con la duplice anima delle istituzioni, che producono contemporaneamente dati di flusso e dati di stock.

I due processi produttivi, pur avendo degli elementi comuni, sono governati da logiche molto diverse e richiedono l’impiego di metodologie e di tecnologie differenti per quanto riguarda le fasi di validazione, di diffusione e di visualizzazione. I dati di stock sono trattati attraverso l’impiego di tecniche consolidate e vengono aggregati con lo scopo di descrivere un certo fenomeno nella sua interezza, i dati di flusso descrivono l’evoluzione temporale di un fenomeno e, oltre a essere numericamente più consistenti, hanno delle specificità che richiedono trattamenti e tecniche di validazione e di diffusione diverse dai dati di stock, anche in relazione al GDPR.

La validazione dei dati di stock, generalmente riferiti a un intero anno, richiede molto tempo in quanto gli archivi si devono consolidare e il processo scientifico per garantirne la qualità è molto oneroso: questo vincolo non consente di avere dati aggiornati in tempo reale, ma permette di descrivere i fenomeni con molta precisione. La validazione dei dati di flusso segue un iter molto diverso, attraverso il quale non è al momento possibile garantire la stessa qualità dei dati di stock, ma in compenso risponde al bisogno crescente di numerosi ambiti di ricerca.

C’è poi una questione delicata che riguarda la distinzione tra i dati di sintesi e i dati puntuali: i primi possono essere trattati e condivisi senza vincoli particolari, i secondi, nella maggior parte dei casi, sono soggetti alla regolamentazione sul trattamento dei dati e impongono numerosi limiti non solo alla diffusione ma anche al trattamento e all’analisi da parte dei ricercatori.

Superato lo scoglio organizzativo e metodologico, che già di per sé rappresenta un limite notevole, c’è da affrontare la questione politica. Nonostante i proclami e le linee guida (molto spesso ignorate) dell’AGID, le pubbliche amministrazioni sono ancora dei feudi nei quali regnano le regulae societatis dei gesuiti, ovvero l’obbedienza incondizionata alle volontà dei superiori gerarchici e la negazione dell’evidenza, attraverso l’omissione della diffusione della conoscenza, per indirizzare il pensiero per mezzo di ordini precisi dettati dalla Divina Provvidenza, che, chissà perché, ha sempre sembianze molto umane.

Questo aspetto rende gli archivi delle istituzioni assimilabili a dei fortini inespugnabili, protetti da un recinto chiamato “privacy”, che ne legittima di fatto l’isolamento. Se è vero che negli ultimi anni la collaborazione tra istituzioni è stata rafforzata, e alcuni archivi, soprattutto stock, sono stati condivisi, è altresì vero che le metodologie adottate per la condivisione dei dati sono assolutamente inadeguate rispetto ai mezzi disponibili e fanno ricorso ancora a vecchi e insicuri metodi di trasferimento manuali (upload o FTP).

In altre parole, non esiste una governance nazionale che definisca strategie, metodi e infrastrutture di condivisione, esistono più che altro prassi sedimentate che non tengono conto delle evoluzioni del mondo e della tecnologia e, soprattutto, della necessità di creare un’industria dei dati pubblici. Eppure, le pubbliche amministrazioni dispongono di patrimoni informativi ricchissimi, che vanno dalle caratteristiche dei singoli individui ai dati economici, dai fabbisogni di personale ai bilanci, dalle competenze alle professioni svolte, attraverso i quali sarebbe possibile attuare consapevolmente tutte le riforme di cui il Paese ha bisogno.

Il rinnovamento della PA passa attraverso un reclutamento del personale più efficace e consapevole, un’erogazione dei concorsi pubblici fluida e trasparente, una valorizzazione del merito, della conoscenza e dell’esperienza dei lavoratori, un’ottimizzazione delle spese e degli assetti organizzativi attraverso l’attuazione di politiche sul lavoro sostenibili in termini economici, produttivi e ambientali.

È difficile, se non impossibile, immaginare una riforma che, ancora una volta, ignori il valore dei dati e faccia ricorso alla volontà della Divina Provvidenza. Se è proprio necessario arrendersi all’idea che la salvezza degli uomini non sia frutto del contributo di ciascun individuo al benessere della collettività, ma una specie di miracolo compiuto da uno dei tanti salvatori della Patria, molto cari alle masse, tanto vale identificare il salvatore nei dati e non in un santone improvvisato che dispensi l’elisir delle riforme perfette.




Agricoltura ed uso dei droni. Tra novità e questioni aperte

Nella terminologia normativa europea, i droni – detti anche APR (Aeromobili a Pilotaggio Remoto) – sono compresi nel gruppo degli aeromobili “senza equipaggio” (UAS – unmanned aircraft system).

Anche il Codice della Navigazione italiano li colloca all’interno della nozione di aeromobile (art. 743) e li definisce “mezzi aerei a pilotaggio remoto”.

I droni consentono flessibilità di impiego e velocità di intervento, una sempre più elevata risoluzione e precisione, un’ampia disponibilità di rilevazioni e dati ottenuti attraverso sensori, camere multispettrali, camere termiche, GPS e magnetometri.
Da qualche anno l’uso dei droni ha preso piede anche nel settore agricolo, in due distinte modalità applicative.

La prima, più diffusa, è l’attività di monitoraggio.
Essa si articola in più momenti:
i) in una fase diagnostica preventiva (valutazione della capacità del terreno e delle sue aree critiche, controllo delle zone incolte e boschive);
ii) nell’osservazione in tempo reale dello stato di salute della coltura e nella prevenzione delle criticità e delle malattie;
iii) nella conseguente capacità per l’agricoltore di programmare quantità e tempistiche di interventi di precisione (irrigazione, azione fitosanitaria), in base ai reali bisogni della singola porzione di campo evitando interventi massivi, uniformi e generalizzati.
Ne deriva un risparmio di tempo, di lavoro e di macchine, ma soprattutto un minore impatto ambientale legato al mirato utilizzo dei prodotti fitosanitari e della risorsa idrica.

La seconda modalità d’uso è la possibilità per il drone di svolgere dei compiti sul campo, come avviene nell’ambito della lotta biologica ai parassiti delle piante (ad esempio la piralide del mais) oppure in tema di trattamenti fitosanitari.

Su tale ultimo aspetto va ricordato che l’irrorazione aerea è ad oggi vietata, come prescritto dall’art. 13 del D. Lgs. 150/2012 (“attuazione della direttiva 2009/128/CE che istituisce un quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile dei pesticidi”). Il divieto prevede limitate e circostanziate deroghe, rilasciate dalle Regioni o dalle Province autonome. Il Piano di Azione Nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari (PAN), adottato con Decreto Interministeriale 22/01/2014, proibisce espressamente l’irrorazione aerea in aree giudicate sensibili quali, tra le altre, gli allevamenti di bestiame, di api, di pesci e molluschi ed i terreni ove si pratica l’agricoltura biologica o biodinamica.

L’interpretazione di tali deroghe, nel corso degli anni, è stata piuttosto stringente e limitata, per lo più, all’utilizzo di elicotteri per la distribuzione dei prodotti fitosanitari.
La bozza di revisione del Piano, pubblicata sul sito del Mipaaf ed in corso di approvazione, ribadisce il divieto di uso dei droni per i trattamenti fitosanitari (punto A.3.10). Nel contempo, tuttavia, essa apre alla sperimentazione, alla luce della risoluzione del Parlamento europeo del 12/02/2019, che riconosce le potenzialità legate all’impiego della tecnologia intelligente e dell’agricoltura di precisione per gestire meglio i prodotti fitosanitari.

Il volo dei droni civili soggiace ad una normativa complessa, ove si intersecano disposizioni europee e nazionali. L’inclusione dei droni nel più ampio gruppo degli aeromobili determina la competenza di ENAC – Ente Nazionale Aviazione Civile che, con i propri regolamenti, individua le categorie di droni, le tipologie di operazioni e stabilisce le condizioni di sicurezza del volo (security).

In sede europea, il Reg. 1139/2018 UE ha posto al vertice del sistema l’EASA – Agenzia dell’Unione Europea per la sicurezza aerea, individuandone i compiti e dettando le norme comuni per l’aviazione civile. Il Regolamento della Commissione n. 945/2019 regola gli standards di sicurezza tecnica dei droni (safety). Il successivo Reg. della Commissione n. 947/2019, in vigore dal 31/12/2020, disciplina la registrazione, le limitazioni operative e le regole applicabili agli operatori ed ai piloti, e va a sostituire ed uniformare le disposizioni nazionali, subentrando, sul punto, ai relativi regolamenti ENAC.

Il regolamento europeo da ultimo citato fissa quale limite generale per il volo “a vista” dei droni fino a 25 kg l’altezza massima di 120 metri dal punto più vicino della superficie terrestre (Allegato al Reg., parte A, Disposizioni generali, n. 2).

Tale norma è derogabile soprattutto in difetto, in presenza di particolari condizioni del suolo o del terreno o di aree destinate ad operazioni di volo di altri aeromobili, o densamente popolate o comunque specificamente individuate.

In Italia, la piattaforma D-Flight eroga i servizi per la gestione del traffico aereo a bassa quota di aeromobili a pilotaggio remoto. Attraverso la collaborazione con ENAC, D-Flight è un portale che mette a disposizione degli utenti la registrazione dei droni nella banca dati italiana e l’assegnazione del codice univoco di identificazione, nonché il reperimento delle informazioni utili per volare con i droni in sicurezza in conformità alle normative vigenti.
Le mappe disponibili su D-Flight illustrano le limitazioni all’altezza ed all’uso dei droni su tutto il territorio nazionale, indicando, in particolare modo, le aree vietate o dove il limite è inferiore a quello generale di 120 mt.

Vale la pena sottolineare che tra le aree in cui vige il divieto di utilizzo dei droni (limite metri 0 sul livello del suolo) sono compresi i parchi naturali e le zone soggette a protezione faunistica. Si tratta di territori sui quali norme nazionali o disposizioni regionali proibiscono il sorvolo.

La misura, se da un lato è comprensibile, dall’altro può concretamente rappresentare un freno al grande supporto tecnologico che i droni possono dare in queste zone, soprattutto in considerazione della difficoltà di fare agricoltura in luoghi di alto valore paesaggistico e, spesso, di speciale particolarità orografica.

Il recente decreto Mipaaf del 30/06/2020 ha finalmente dato attuazione alla previsione del Testo Unico del Vino che prevede la valorizzazione dei vigneti eroici e storici. I vigneti eroici, in particolare, sono definiti “i vigneti … situati in aree ove le condizioni orografiche creano impedimenti alla meccanizzazione o aventi particolare pregio paesaggistico o ambientale, nonché i vigneti situati nelle piccole isole” (art. 2 decreto).

Si può capire come, soprattutto in queste zone, l’uso del drone possa contribuire alla salvaguardia ed alla sopravvivenza di una viticoltura condotta in condizioni estreme, supportando concretamente il lavoro dell’uomo.

E tuttavia, molti dei vigneti c.d. eroici si trovano in aree qualificate come riserve naturali o parchi nazionali, dove il volo dei droni è vietato. È il caso per esempio delle Cinque Terre, dove si produce un famoso vino a Denominazione di Origine Controllata.
È dunque auspicabile che, in futuro, nel doveroso rispetto dell’ambiente, ed anzi proprio in funzione dei principi di sostenibilità e di risparmio di risorse che l’utilizzo dei droni può rappresentare, sia data la possibilità di utilizzare tali strumenti anche in queste zone pregiate. I droni infatti, qui più che altrove, possono dare un aiuto prezioso agli agricoltori e consentire la preservazione di un inestimabile patrimonio di conoscenze, esperienze e tradizioni produttive.




Abbiamo già una vita digitale? Quale sarà l’immediato futuro con il 5G?

L’ambiente digitale è una sfida importante per tutti, non si può rimanere indietro senza correre il rischio di rincorrere il futuro con affanno. Vale per l’economia, per la politica, per ogni attività sociale, per lo sport e anche per le religioni.

Né è consapevole la chiesa nelle parole del Papa Francesco che nella enciclica Fratelli Tutti ci mette in guardia sui pericoli della comunicazione su internet dove “ … i fanatismi che inducono a distruggere gli altri hanno per protagonisti anche persone religiose, non esclusi i cristiani, che «possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. …” ma aggiunge anche che “… internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio» .. “.

Se ci fermiamo un attimo a riflettere ci accorgeremo che per molti di noi la vita è già digitale, permea la gran parte della nostra giornata e che una parte del futuro è già presente.
Se digitiamo la parola “digitale” sul web scopriremmo innumerevoli innovazioni che potrebbero già essere utilizzate nel futuro .. già presente …

Fattorie Verticali. Grazie alla tecnologia è possibile coltivare senza terra sfruttando spazi verticali. Ortaggi e piante possono essere coltivati in serre idroponiche senza terra ricevendo la luce e nutriti con i minerali necessari per la loro crescita. E’ una tecnologia nata con la ricerca spaziale in grado di sviluppare una produzione nelle aree urbane assicurando il fabbisogno degli abitanti e occupando pochissimo spazio.

Ologrammi in 3D. È solo di qualche mese fa l’interazione in tempo reale di Piero Angela In occasione della manifestazione “Il Tempo delle Donne”: grazie all’ologramma 3D abilitato dal 5G di Vodafone, Piero Angela da Roma ha interagito e partecipato alla manifestazione milanese. Il 5G di Vodafone lo ha trasportato sul palco di Milano mentre lui parlava in tempo reale da Roma.

Come è potuto accadere? Il tutto è stato reso possibile grazie alla capacità della rete di ultima generazione, il 5G, che assicura “simultaneità” e “bassa latenza”, concetti che saranno spiegati con maggiore dettaglio più avanti. L’esperimento ha consentito al conduttore e al divulgatore di interagire come se fossero entrambi nello stesso posto, seduti uno accanto all’altro, grazie all’altissima qualità audio e video e al trasferimento ultraveloce dei flussi video tra Roma e Milano.

5G, Simultaneità e Bassa latenza
Lo abbiamo in parte anticipato prima: uno dei più importanti vantaggi di questa nuova tecnologia
sta nel fatto che le future reti 5G potranno contare su di una quasi illimitata larghezza di banda: i dati viaggeranno quindi ad altissima velocità ma per applicazioni che necessitano della “simultaneità” potrebbe non bastare ancora, occorre anche una bassissima latenza.
Per latenza si intende il ritardo di comunicazione da un punto ad un altro, il tempo che intercorre tra l’invio di un’informazione e la sua risposta.
Per raggiungere la simultaneità, La distanza resta dunque un fattore chiave: maggiore è la distanza, maggiore sarà il tempo di ritardo nella comunicazione dei dati e solo una bassissima latenza potrà consentire applicazioni fino a ieri impensabili, di diventare realtà in pochissimo tempo.

Quali sono i campi di applicazione? Tantissimi.
Nell’ambito della chirurgia, ad esempio. Connessioni ultra-stabili e simultaneità nella trasmissione dei dati renderebbe realtà un intervento chirurgico a distanza anche in condizioni di emergenza: in condizioni di estrema urgenza un chirurgo potrebbe intervenire su di un paziente che si trova in una unità mobile di soccorso opportunamente attrezzata, anche a notevole distanza.

In altri casi d’uso quali  realtà aumentata o virtuale mobile o come la guida autonoma che necessita di un processo decisionale in tempi assolutamente reali, la latenza introdotta dalla comunicazione potrebbe influire negativamente sulla customer esperience, ma non solo: potrebbe influire anche sulla sicurezza.

Come si potrebbe assicurare allora simultaneità e bassissima latenza? Per tutti casi d’uso di cui sopra, definiti “time Sensitive”, l’Edge computing aiuta a ridurre le latenze: in pratica il concetto è di portare la potenza di calcolo e i dati il più vicino possibile alle origini dei dati stessi o al luogo di consumo dei medesimi. La rivoluzione tecnologica può necessitare in taluni casi d’uso di spostare il maggior numero possibile di risorse ai margini della rete, vicino all’utente finale.

Edge Computing. ISHU VERMA
ISHU VERMA è un Edge computing Evangelist e lavora presso RED HAT.
Egli da evidenza di come esistano diversi casi d’uso riguardo all’edge computing e differenti livelli di edge: ad esempio per i service provider l’edge computing si può estendere lungo tutto il percorso dal core all’ultimo miglio, mentre per le esigenze di talune imprese potrebbe limitarsi ad una o più sedi.
Ciò che però caratterizza l’edge computing è la decentralizzazione dei servizi cloud in modo che siano più vicini agli utenti finali o alle fonti dei dati con l’obiettivo di aumentare l’efficienza operativa, di ridurre i tempi di latenza e di offrire una migliore qualità dei servizi offerti.
E’ una parziale controtendenza rispetto alla concentrazione dei servizi cloud in grandi data center.
Le motivazioni che portano a prediligere l’edge computing, come spiega ISHU VERMA, possono essere ricondotte a 4 macroaree: sicurezza, larghezza di banda, latenza e resilienza.

I casi d’uso sono tutti quelli dove elaborando i dati più vicino all’origine dei medesimi, si può ottenere una netta riduzione della latenza , quando i tempi di risposta devono essere bassissimi, p.e. guida automatica, interventi chirurgici a distanza … o anche quando ragioni di sicurezza impongono di elaborare i dati in locale e di far viaggiare solo i dati aggregati. Ci sono poi i casi dove occorre assicurare la continuità del servizio: in questi casi l’edge computing può offrire una maggiore resilienza.

Sempre ISHU VERMA tiene a precisare che le due opzioni di computing centralizzato e edge computing non si escludono: il futuro sarà una combinazione ibrida delle due opzioni in relazione ai casi d’uso.

Quando arriverà il 5G?
Ritornando al 5G, l’implementazione della rete è in fase di sperimentale da parte dei vari operatori del settore e, come abbiamo visto, offrirà altissime velocità di trasmissione rispetto al 4G, gestirà un numero di connessioni molto superiore assicurando tempi di risposta (latenza) molto più rapidi. Peraltro, considerato che gran parte del lavoro sarà svolto nel 5G dalle antenne e non dall’HW dello smartphone, si potrebbe avere anche un notevole risparmio energetico con conseguente maggiore durata delle batterie. Tra i vantaggi ci saranno anche gli innumerevoli nuovi servizi che si potranno offrire: nei precedenti paragrafi sono stati elencati solo alcuni esempi.
Svantaggi e rischi? Come spesso accade quando si introduce una innovazione tecnologica di tale portata si creano differenti schieramenti ed è molto difficile argomentare su questo punto: ogni valutazione spetterà a chi dovrà estendere la sperimentazione per portarla verso un utilizzo su tutto il territorio.

L’introduzione dell’innovazione porta inevitabilmente al confronto: chi non ricorda il durissimo dibattito ai tempi del passaggio dalla televisione in bianco e nero al colore sui potenziali danni alla salute che avrebbe portato quest’ultima?