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Web Reputation, la difesa della propria identità online

C’è un termine, entrato negli ultimi anni prima nel vocabolario comune e poi, sulla Treccani: googlare. Il verbo in questione indica molto di più della mera azione di ricerca sul web, ma abbraccia un concetto più ampio, quello della conferma di una nostra iniziale percezione.

Per capirne realmente la forza e la portata innovativa basta guardare alle nostre azioni quotidiane: ho visto un prodotto, ho sentito alla radio il nome di una certa località, mi hanno parlato bene di un certo dentista, in tutte queste situazioni, l’azione che immediatamente segue il primo impulso (per usare un termine caro al marketing) è quella di cercare conferma online e appunto googlare: il nome della località in questione, o del professionista sanitario, o del prodotto specifico, per tornare all’esempio sopracitato. Nel nostro viaggio online, alla ricerca di conferme e recensioni positive (i professionisti del marketing chiamerebbero questa fase Zero Moment of Truth (ZMOT) ci imbattiamo in una serie di informazioni, frutto di recensioni e giudizi altrui, lasciati nel grande spazio libero del web. Già lo spazio libero del web, un mondo senza vincoli e barriere che rischia di essere anche un mondo senza regole.

Cosa succederebbe infatti se, per tornare all’esempio di cui sopra, googlando sul web mi imbattessi in una serie di recensioni negative sul professionista sanitario di cui stavo cercando informazioni, quali effetti avrebbero sulla mia scelta, quali sulla reputazione del sanitario in questione?

Qui veniamo al nodo forse più spinoso della web reputation, che comprende non soltanto tutte le informazioni che forniamo noi in prima persona sul web o sui nostri account social: foto, video, pensieri condivisi in libertà, ma altresì ciò che gli altri più o meno consapevolmente, più o meno volontariamente scrivono su di noi. Foto pubblicate da altri, recensioni lasciate su portali dedicati, post pubblicati sul proprio account che fanno riferimento ad uno specifico prodotto, articoli scritti su blog.

Gli esempi sono tendenzialmente infiniti, così come le occasioni che il web offre per esprimersi. Cosa ha spinto quella persona a raccontare in termini negativi l’esperienza vissuta, quali erano le aspettative dell’acquirente sul prodotto? In realtà le variabili sono tantissime e spesso e volentieri, diventa difficile per l’avventore che legge un commento o una recensione sul web, riuscire a cogliere le mille sfumature che si celano dietro una frase e che sono sintetizzate in una recensione negativa, o in un Non mi piace, piuttosto che in una emoticon con l’espressione arrabbiata, o in un coinciso non lo consiglio. Ma chi controlla tutta questa mole di informazioni, cosa possiamo fare realmente per tutelarci? Vero, il web è sì un mondo virtuale, ma non svincolato dalle leggi, quindi in teoria, possiamo far valere gli stessi principi e le stesse norme che disciplinano nel mondo reale il diritto all’immagine, alla reputazione, e parimenti la tutela dalla diffamazione. Purtroppo però, non sempre è così semplice. Ancor più tortuoso il diritto all’oblio, la sacrosanta richiesta di non essere marchiato a vita online, di veder cancellati dati e informazioni, non (più) corrispondenti alla nostra identità. Il monitoraggio costante, la costruzione della web reputation diventano così elementi imprescindibili per il privato cittadino e ancor più per le aziende.




Fondazione Gimbe: crescono ancora nuovi casi, ricoveri e terapie intensive

Il monitoraggio indipendente della Fondazione GIMBE rileva nella settimana 24-30 novembre 2021, rispetto alla precedente, un aumento di nuovi casi (86.412 vs 69.060) (figura 1) e un aumento dei decessi (498 vs 437). Crescono anche i casi attualmente positivi (194.270 vs 154.510), le persone in isolamento domiciliare (188.360 vs 149.353), i ricoveri con sintomi (5.227 vs 4.597) e le terapie intensive (683 vs 560) . In dettaglio, rispetto alla settimana precedente, si registrano le seguenti variazioni:

  • Decessi: 498 (+14%), di cui 14 riferiti a periodi precedenti
  • Terapia intensiva: +123 (+22%)
  • Ricoverati con sintomi: +630 (+13,7%)
  • Isolamento domiciliare: +39.007 (+26,1%)
  • Nuovi casi: 86.412 (+25,1%)
  • Casi attualmente positivi: +39.760 (+25,7%)

«Da sei settimane consecutive – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – continuano ad aumentare a livello nazionale i nuovi casi settimanali (+22%) con una media mobile a 7 giorni più che quintuplicata: da 2.456 il 15 ottobre a 12.345 il 30 novembre» (figura 4). L’aumentata circolazione virale è documentata dall’incremento sia del rapporto positivi/persone testate (da 3,6% a 17,1%) , sia del rapporto positivi/tamponi molecolari (da 2,4% a 7,2%) e positivi/tamponi antigenici rapidi (da 0,07% a 0,38%) .

In tutte le Regioni si rileva un incremento percentuale dei nuovi casi: dal 3,2% di Abruzzo e Umbria al 39% delle Marche . In 98 Province l’incidenza è pari o superiore a 50 casi per 100.000 abitanti e in 16 Regioni tutte le Province superano tale soglia: Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto. In 32 Province si registrano oltre 150 casi per 100.000 abitanti: Trieste (635), Bolzano (552), Gorizia (496), Rimini (362), Treviso (342), Forlì-Cesena (321), Padova (321), Venezia (300), Vicenza (298), Aosta (286), Pordenone (252), Ravenna (245), Ascoli Piceno (234), Imperia (233), Udine (219), Bologna (213), Rovigo (213), Belluno (209), Pesaro e Urbino (203), Fermo (200), Ferrara (192), Trento (188), Verona (184), Viterbo (177), Varese (176), Verbano-Cusio-Ossola (164), Cremona (164), Roma (161), Genova (160), Monza e Brianza (157), Ancona (155) e Como (151) .

In aumento i decessi: 498 negli ultimi 7 giorni (di cui 14 riferiti a periodi precedenti), con una media di 71 al giorno rispetto ai 62 della settimana precedente.

«Sul fronte ospedaliero – afferma Renata Gili, responsabile Ricerca sui Servizi Sanitari della Fondazione GIMBE – si registra un ulteriore incremento dei posti letto occupati da pazienti COVID: rispetto alla settimana precedente +13,7% in area medica e +22% in terapia intensiva». A livello nazionale, al 23 novembre, il tasso di occupazione è del 9% in area medica e dell’8% in area critica, con notevoli differenze regionali: la soglia del 15% per l’area medica e del 10% per l’area critica risultano entrambe superate nella Provincia Autonoma di Bolzano (rispettivamente 20% per l’area medica e 11% per l’area critica) e in Friuli-Venezia Giulia (rispettivamente 23% per l’area medica e 14% per l’area critica); inoltre, in area medica si colloca sopra soglia la Valle D’Aosta (21%), mentre per l’area critica superano la soglia Lazio (10,3%) e Umbria (13%). «Gli ingressi giornalieri in terapia intensiva – puntualizza Marco Mosti, Direttore Operativo della Fondazione GIMBE – continuano ad aumentare: la media mobile a 7 giorni è passata da 48 ingressi/die della settimana precedente a 56» .

Vaccini: forniture. Al 1° dicembre (aggiornamento ore 06.15) risultano consegnate 102.127.530 dosi. «Considerato che le forniture degli ultimi 7 giorni ammontano solo a 433mila dosi – commenta Mosti – l’attuale ritmo delle somministrazioni di terze dosi ha ridotto le scorte di vaccini a mRNA a quota 6,1 milioni».

Vaccini: somministrazioni. Al 1° dicembre (aggiornamento ore 06.15) il 79,7% della popolazione (n. 47.226.119) ha ricevuto almeno una dose di vaccino (+297.415 rispetto alla settimana precedente) e il 77,1% (n. 45.683.073) ha completato il ciclo vaccinale (+247.367 rispetto alla settimana precedente) . Cresce nell’ultima settimana il numero di somministrazioni (n. 1.984.561) con una media mobile a 7 giorni di 306.445 somministrazioni/die: decollano finalmente le terze dosi (+52,5% rispetto alla settimana precedente), affiancate da prime dosi di nuovo in crescita (+34,7% rispetto alla settimana precedente)

Rispetto ai target definiti dalla struttura commissariale per il periodo 1-12 dicembre, l’obiettivo per i giorni feriali (400-450 mila dosi dal lunedì al venerdì e 350 mila il sabato) appare realistico considerato che dal 24 novembre le somministrazioni giornaliere feriali si attestano stabilmente oltre quota 300.000. Meno probabile raggiungere 300.000 somministrazioni nei giorni festivi: durante l’ultimo mese, infatti, la domenica le somministrazioni non hanno mai raggiunto quota 100 mila, eccetto il 28 novembre in cui le somministrazioni sono state poco più di 150 mil

Vaccini: nuovi vaccinati. Dopo due settimane di stabilizzazione intorno a quota 127 mila, nell’ultima settimana il numero dei nuovi vaccinati è salito a 168.377 (+31,5%) . Tuttavia, dei 6,8 milioni di persone non vaccinate crescono troppo lentamente due fasce che preoccupano: da un lato 2,57 milioni di over50 ad elevato rischio di malattia grave e ospedalizzazione, dall’altro 1,16 milioni nella fascia 12-19 che influiscono negativamente sulla sicurezza delle scuole .

Vaccini: coperture. Le coperture con almeno una dose di vaccino sono molto variabili nelle diverse fasce d’età (dal 97,4% degli over 80 al 76,6% della fascia 12-19). Lo stesso si registra sul fronte delle coperture con terza dose, che negli over 80 hanno raggiunto il 52,1%, mentre si attestano ancora al 20,2% nella fascia 70-79 e al 16% in quella 60-69 anni .

Vaccini: efficacia. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità confermano la riduzione dell’efficacia vaccinale dopo 6 mesi dal completamento del ciclo primario, confermando la necessità del richiamo. In dettaglio:

  • l’efficacia sulla diagnosi scende in media dal 72,5% per i vaccinati entro 6 mesi al 40,1% per i vaccinati da più di 6 mesi;
  • l’efficacia sulla malattia severa scende in media dal 91,6% per i vaccinati entro 6 mesi all’80,9% per i vaccinati da più di 6 mesi.

Vaccini: terza dose. Al 1° dicembre (aggiornamento ore 06.15) sono state somministrate 6.543.004 terze dosi con una media mobile a 7 giorni che supera le 250 mila somministrazioni al giorno .

Sul repository ufficiale del Commissario Straordinario il 1° dicembre la platea per la terza dose (n. 20.548.124) è stata aggiornata sommando tutte le persone vaccinabili (con dose aggiuntiva o booster) secondo le indicazioni delle Circolari ministeriali dell’8 ottobre, 3 novembre, 11 novembre e 25 novembre. Il tasso nazionale di copertura vaccinale per le terze dosi calcolato sulla platea ufficiale è del 31,8% con nette differenze regionali: dal 21,6% del Friuli-Venezia Giulia al 44,5% del Molise .

Variante Omicron. Alla variante B.1.1.529 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha assegnato con il nome di Omicron, classificandola come variante di preoccupazione, per le numerose mutazioni presenti. Tuttavia, ad oggi i dati disponibili non permettono di sapere se, rispetto alla Delta, la variante Omicron è più trasmissibile, causa una malattia più severa, se è più probabile reinfettarsi e se può ridurre la risposta immunitaria ai vaccini.

«In questa fase d’incertezza – conclude Cartabellotta – bisogna potenziare tutti gli interventi, seguendo il principio della massima precauzione. In particolare, incrementare le attività di sequenziamento condividendo i risultati nel database GISAID, potenziare il tracciamento dei casi e monitorare attentamente le aree con rapido aumento di incidenza. Per la popolazione rimangono fondamentali i comportamenti già noti: vaccinarsi e sottoporsi alla terza dose quando indicata – con massima priorità per anziani e fragili, utilizzare la mascherina negli ambienti chiusi, possibilmente FFP2 se affollati, rispettare il distanziamento sociale e ventilare frequentemente i locali».




Classe energetica immobili, la più diffusa è la G

I potenziali acquirenti sono stati sempre attenti alla prestazione energetica dell’immobile, ancora di più dopo il primo lockdown quando la permanenza forzata in casa li ha resi maggiormente consapevoli dei costi energetici.

Questi ultimi, alla luce anche dei rialzi in corso, saranno sempre più ponderati nella valutazione della scelta dell’immobile. L’Ufficio Studi del Gruppo Tecnocasa ha analizzato le compravendite realizzate attraverso le agenzie del Gruppo in Italia e ha rilevato che, tra il 2019 e il 2021, è aumentata la percentuale di acquisti di abitazioni in classe energetica A: si passa infatti dal 3,0% del 2019 al 4,9% del 2021.

Le classi dalla B alla F mantengono un tasso sostanzialmente costante, mentre si registra una diminuzione della percentuale di compravendite di classe G, si passa dal 59,5% del 2019 al 57,5% del 2021. La classe G rimane comunque la classe energetica più scambiata in Italia, alla luce della vetustà del patrimonio abitativo italiano.

Negli anni scorsi una maggiore sensibilità all’argomento era stata rilevata tra gli acquirenti di casa vacanza che, utilizzando l’abitazione solo in alcuni periodi dell’anno, desideravano contenere i costi di gestione dell’abitazione. In generale negli ultimi tempi si inizia a capire come un immobile in classe energetica elevata conserva valore nel tempo, anche in una futura ottica di rivendita.

Per quanto riguarda le locazioni le classi dalla A alla E evidenziano percentuali di affitto sostanzialmente stabili, cresce la percentuale di affitti in classe F che passa dal 13,9% del 2019 al 15,6% del 2021, mentre diminuisce la percentuale di locazioni in classe G che passa dal 59,1% al 58,2%. Anche sul mercato delle locazioni le tipologie più affittate appartengono alla classe energetica G.

 




Tariffe biorarie, risparmi in calo: con le monorarie risparmi fino al 7,7%

Scegliendo una tariffa della luce monoraria a prezzo fisso è possibile risparmiare di più rispetto a una tariffa bioraria, cioè una promozione con un prezzo diversa a seconda della fascia oraria.

Le somme che è possibile mettere da parte inoltre, sono inversamente proporzionali ai consumi.

È quanto emerge dall’ultima indagine sui prezzi dell’energia elettrica realizzata da SosTariffe, che ha preso in esame tre diversi profili di consumo, con un fabbisogno energetico annuo via via maggiore.

Tre profili di consumo: come cambiano i risparmi possibili

Lo studio di SosTariffe.it è stato condotto a febbraio 2020 grazie all’ausilio dello strumento di comparazione delle offerte di energia elettrica. Si sono prese in considerazione solo tariffe luce del mercato libero. Il report analizza tre profili-tipo di consumo energetico, riferiti tutti e tre alla città di Milano. Si è posta a confronto cioè la spesa di tre diverse utenze.

Con un fabbisogno di energia elettrica crescente, rispettivamente di 1000 kWh (che potrebbe corrispondere ad un single che vive da solo), 2700 kWh (pari al consumo di una famiglia di 3-4 componenti) e 5000 kWh (quanto spende un nucleo di sette persone) ogni anno. L’indagine ha cercato di valutare la diversa convenienza tra una fornitura di energia elettrica in tariffa bioraria e una in tariffa monoraria. Sono state considerate cinque tra le offerte più economiche presenti sul mercato attuale.

Monoraria vs bioraria: cosa cambia tra le due tariffe

Di solito si definisce monoraria una tariffa di energia elettrica  la quale consente di pagare allo stesso prezzo la luce consumata in qualsiasi momento della giornata. La tariffa bioraria, come lo stesso nome lascia intendere invece, ha un prezzo dell’energia variabile a seconda dell’ora del giorno, che viene convenzionalmente diviso in tre fasce orarie. La fascia F1 è compresa tra le 8 e le 19; la F2 tra le 19 e le 8 nei giorni feriali. Infine la F3 comprende i weekend ei giorni festivi. La ripartizione in fasce tiene conto della richiesta di energia variabile nell’arco della giornata: statisticamente maggiore nelle ore di urne e inferiore di notte e nei festivi.

Single che vive da solo: con la monoraria risparmi fino al 7,72%

Rispetto ai primi anni in cui furono introdotte (dal 2010 in poi) le tariffe biorarie hanno perduto lungo la strada la propria convenienza. Ce ne accorgiamo esaminando i dati che emergono dall’analisi del primo profilo di consumo, da 1000 kWh all’anno. Un fabbisogno energetico annuale pari a quello di una persona che viva sola. Il single dello studio SosTariffe.it può scegliere tra cinque diverse proposte di tariffa bioraria dal costo medio di 230 euro annui (la più economica costa 216 mentre la più cara quasi 241).

Sono sempre cinque le proposte di tariffa monoraria prese in considerazione dallo studio. Il loro costo medio è di circa 213 euro, con un prezzo annuale che oscilla tra i 191 e i 222 euro. Di conseguenza la differenza media di prezzi tra la tariffa bioraria quella monoraria è del 7,72%. Pari alla somma che si può risparmiare optando per una tariffa monoraria a prezzo fisso.

Famiglia di 3-4 componenti: con la monoraria risparmi fino al 4,44%

Il secondo profilo di consumo ipotizzato potrebbe corrispondere a una famiglia di 3-4 componenti, che hanno bisogno ogni anno di circa 2700 kWh di energia elettrica.

Anche in questo caso sono sempre cinque le proposte tariffarie esaminate dal report. Per la bioraria il costo medio delle promozioni è di 467 euro (mentre la più conveniente costa 456, la più costosa si aggira intorno ai 481 euro). Anche nel caso del nucleo di 3 – 4 persone la tariffa monoraria permette di spendere meno, in media 447 euro ogni anno. Se teniamo conto infatti che la tariffa più economica ha un costo di 411 euro mentre la monoraria più cara si aggira sui 463, optare per il prezzo fisso nell’arco della giornata permette un risparmio del 4,44%. Notiamo dunque come al crescere del fabbisogno energetico, il risparmio possibile optando per una tariffa monoraria conveniente, subisca un decremento.

Famiglia numerosa: con la monoraria risparmi “solo” del 2,56%

Infine il terzo profilo di consumo, con un fabbisogno annuo di 5000 kWh. Potrebbe corrispondere a una famiglia molto numerosa, ad esempio un nucleo familiare di sette componenti. Nel caso della famiglia extra large i risparmi possibili sono minimi. Le tariffe biorarie a loro disposizione hanno un costo medio annuale di 840 euro (si va dalla promozione più economica da 818 a quella più dispendiosa da 861 euro). Per quanto riguarda invece le tariffe monorarie, i prezzi si aggirano intorno a una media annuale di 819 euro. Nel loro caso dunque il risparmio, minimo, è solo del 2,56%.

App e comparatore per scegliere l’offerta su misura

Se vogliamo risparmiare sui consumi domestici di luce, meglio optare per le offerte a prezzo bloccato, che consentono di mantenere fermo il prezzo dell’energia per un periodo prestabilito di 12 o 24 mesi. In ogni caso, se vogliamo ricercare i prezzi più bassi per le nostre esigenze di consumo, qualsiasi sia il nostro profilo di spesa luce, ed eventualmente valutare il passaggio a un fornitore del mercato libero, possiamo utilizzare il comparatore di SosTariffe.it, grazie al quale sono stati rilevati i dati di questa indagine.

 




Affitti e seconda ondata Covid: crollano i prezzi del breve termine, tiene il transitorio

Il clima di incertezza e l’emergenza pandemica hanno avuto un effetto molto deleterio sul comparto degli affitti brevi: al momento il prezzo medio degli affitti brevi si è ridotto del 7% mentre l’ occupancy del 54,3%, il tutto al netto del periodo di lockdown.

A registrare questi cambiamenti i dati di Hostmate, società specializzata in servizi dedicati ai proprietari di appartamenti..

Secondo fonti interne a Hostmate è prevista una ulteriore riduzione del 25% del numero di appartamenti a disposizione per gli affitti brevi sui principali portali dedicati.

Per quanto concerne l’affitto transitorio, quello superiori a 30gg, il prezzo al momento tiene, riducendosi solo del 5%, il tutto favorito dal cambio dell’abitudine dei consumatori (inquilini/turisti) e dalla possibilità di prenotare per periodi superiori a 30 giorni attraverso portali come Booking e Airbnb. Al momento il 70% del portafoglio in gestione da Hostmate risulta affittato attraverso questa formula.

L’aumento della volatilità di mercato, generato dalla pandemia da Covid-19, ha aumentato la necessità da parte dei proprietari immobiliari di perfezionare i propri modelli previsionali di guadagno per poter prendere decisioni strategiche sulla base di dati di mercato aggiornati alla situazione attuale.

Per rispondere a questo bisogno e permettere ai proprietari immobiliari di avere un quadro chiaro circa la migliore strategia di messa a reddito da adottare, Hostmate ha investito nel potenziamento dei propri tool di data & analytics lanciando l’Acceleratore Immobiliare.

Attraverso i propri strumenti di analisi, affiancati dall’esperienza diretta sul campo, l’azienda identifica la migliore strategia di messa a reddito degli immobili sulla base dell’andamento corrente di mercato. Il tutto unito con le competenze nella gestione operativa di portafogli di immobili che permette l’implementazione delle soluzioni in tempi brevi ed in continuità.

“I tool proprietari Hostmate – afferma Maurizio Sicuro, COO Hostmate – calcolano i guadagni attesi nell’arco dei prossimi 12 mesi in base a diverse soluzioni di messa a reddito: affitto breve, affitto transitorio e affitto lungo. In seguito, in base alla scelta del proprietario, Hostmate implementa la soluzione”.

 

 




Coronavirus, il contagio continua a correre. Prime spie rosse al centro-sud

Il monitoraggio indipendente della Fondazione GIMBE rileva nella settimana 23-29 settembre, rispetto alla precedente, un ulteriore incremento nel trend dei nuovi casi (12.114 vs 10.907) a fronte di un lieve aumento dei casi testati (394.396 vs 385.324).

Dal punto di vista epidemiologico crescono i casi attualmente positivi (50.630 vs 45.489) e, sul fronte degli ospedali, i pazienti ricoverati con sintomi (3.048 vs 2.604) e in terapia intensiva (271 vs 239). Aumentano anche i decessi (137 vs 105).

In dettaglio, rispetto alla settimana precedente, si registrano le seguenti variazioni:

  • Decessi: +32 (+30,5%)
  • Terapia intensiva: +32 (+13,4%)
  • Ricoverati con sintomi: +444 (+17,1%)
  • Nuovi casi: +12.114 (+11,1%)
  • Casi attualmente positivi: +5.141 (+11,3%)
  • Casi testati +9.072 (+2,4%)
  • Tamponi totali: +20.344 (+3,2%)

«Nell’ultima settimana – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – continua l’ascesa della curva dei nuovi casi, principalmente per l’incremento del rapporto positivi/casi testati, oltre che, in misura minore, dei casi testati. Si conferma inoltre la crescita costante dei pazienti ospedalizzati con sintomi e di quelli in terapia intensiva». Da metà luglio i nuovi casi settimanali sono aumentati da poco più di 1.400 ad oltre 12.000, con incremento del rapporto positivi/casi testati dallo 0,8% al 3,1% , mentre i casi attualmente positivi sono più che quadruplicati: da 12.482 a 50.630 .

«L’aumento del rapporto positivi/casi testati – continua il Presidente – se da un lato conferma una circolazione più sostenuta del virus, indipendentemente dal numero di tamponi effettuati, dall’altro lascia intravedere le prime criticità in alcune Regioni, rendendo indifferibile un potenziamento della capacità di testing». In particolare, nella settimana 23-29 settembre, a fronte di una media nazionale del 3,1%, svettano i valori di Liguria (6,4%) e Campania (5,4%) .

Sul versante delle ospedalizzazioni, si registra un incremento dei pazienti ricoverati con sintomi e in terapia intensiva, che in poco più di 2 mesi sono aumentati rispettivamente da 732 a 3.048 e da 49 a 271 . «Se guardando al dato nazionale – puntualizza Cartabellotta – i numeri appaiono ancora bassi e non fanno registrare al momento particolari sovraccarichi dei servizi ospedalieri, iniziano ad emergere differenze regionali rilevanti». In particolare al 29 settembre ben 6 Regioni, quasi tutte del Centro-Sud, registrano tassi di ospedalizzazione per 100.000 abitanti superiori alla media nazionale di 5,5: Lazio (12,2), Liguria (10,6), Campania (7,8), Sardegna (7,4), Sicilia (6,2) e Puglia (5,6).

«Che la situazione nazionale sia sotto controllo – continua il Presidente – è documentato anche dalla composizione percentuale dei casi attualmente positivi che si mantiene costante dai primi di luglio. Mediamente il 93-94% dei contagiati sono in isolamento domiciliare perché asintomatici/oligosintomatici; il 5-6% sono ricoverati con sintomi e quelli in terapia intensiva sono lo 0,5%. Tuttavia, anche per questo indicatore le differenze regionali accendono ulteriori spie rosse». In alcune Regioni, infatti, la percentuale dei casi ospedalizzati è nettamente superiore alla media nazionale del 6,6% (figura 5): Sicilia (11,1%), Lazio (10,2%), Liguria (9,6%) Puglia (9,2%).

«Ormai da oltre 9 settimane consecutive – conclude Cartabellotta – i numeri confermano la crescita costante della curva epidemica e delle ospedalizzazioni: in assenza di variabili che portino ad una flessione della curva, bisogna prendere atto che il progressivo incremento dei casi attualmente positivi inizia a determinare dapprima segni di sofferenza del sistema di tracciamento da parte dei servizi territoriali e poi di sovraccarico ospedaliero, in particolare nelle Regioni del Centro-Sud.

Solo il potenziamento territoriale della gestione della pandemia permetterà di rallentare la risalita della curva epidemica: da un consistente rafforzamento del sistema di testing & tracing a misure adeguate di isolamento domiciliare per evitare contagi intra-familiari; da un’estensiva copertura della vaccinazione antinfluenzale (non solo delle categorie a rischio), al monitoraggio attivo dei pazienti in isolamento domiciliare».




Direttiva NIS2: prendono forma le nuove norme europee sulla sicurezza informatica e delle reti

Il Consiglio Europeo ed il Parlamento europeo hanno recentemente raggiunto un’intesa politica sulle nuove misure per un livello comune elevato di cibersicurezza in tutta l’Unione, al fine di migliorare ulteriormente la resilienza e le capacità di risposta agli incidenti del settore pubblico e privato e dell’UE nel suo insieme.

Si tratta della nuova Direttiva denominata “NIS2” che, una volta definitivamente adottata, andrà a sostituirà l’attuale Direttiva 2016/1148 sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi (NIS), primo strutturato atto legislativo a livello europeo sulla sicurezza informatica, ancora in corso di vigenza.

Adottata nel lontano maggio 2016 la e recepita in Italia con il D.lgs. 18 maggio 2018, n. 65 (anche detto “decreto legislativo NIS”), la NIS ha risposto alla progressiva esposizione dell’Europa alle minacce informatiche che nel corso degli anni sono diventate sempre più frequenti e pervasive, per via di un aumento esponenziale della superficie esposta nell’ecosistema digitale, ormai sempre più eterogeneamente interconnesso.

La direttiva NIS2 mira a fronteggiare ulteriormente questo trend di escalation cyber, rispondendo all’esigenza di protezione, in modo omogeneo nel lungo termine, a livello europeo, dei servizi e presidi essenziali e strategici di ciascuno Stato membro, includendo adesso anche Organizzazioni di medie e grandi dimensioni di più settori critici per l’economia e la società, compresi i fornitori di servizi pubblici di comunicazione elettronica, servizi digitali, acque reflue e gestione dei rifiuti, produzione di prodotti critici, servizi postali e di corriere e pubblica amministrazione, sia a livello centrale che regionale.
Il requisito dimensionale rappresenta peraltro una delle novità maggiormente significative dell’intesa politica perché i soggetti inclusi nell’alveo applicativo della nuova Direttiva verranno espressamente indicati dal Legislatore europeo, che ne circoscriverà l’ambito sulla base dei criteri di proporzionalità, un livello di gestione del rischio e criticità.
A tal riguardo vale la pena di evidenziare che la NIS2 si applicherà agli enti della pubblica amministrazione a livello centrale e regionale, riservandosi ai singoli Stati membri l’opportunità di estenderne l’applicazione a livello più periferico.

La NIS2 includerà anche l’adozione di misure di gestione del rischio di cibersicurezza per il settore sanitario, con particolare riferimento ai produttori di dispositivi medicali, proprio per rispondere alle crescenti minacce alla sicurezza rilevate durante la pandemia di COVID-19.
Dunque, la nuova direttiva intende rafforzare i requisiti di sicurezza informatica imposti alle aziende, attraverso l’introduzione di un quadro normativo che preveda un meccanismo più omogeneo ed efficace sia in termini di requisiti sia di misure di sicurezza, per la cooperazione nella gestione del rischio, degli incidenti nonché per lo snellimento degli obblighi di segnalazione in tutti i settori che rientrano nel perimetro dalla direttiva, nell’ambito di EU-CyCLONe, ossia dell’organizzata rete europea di collegamento per le crisi informatiche, che sosterrà la gestione coordinata degli incidenti di sicurezza informatica su larga scala e favorirà la condivisione di best practices a livello nazionale ed europeo.
A tal riguardo, la NIS2 nell’aggiornare l’elenco dei settori e delle attività soggetti agli obblighi di sicurezza informatica andrà anche a prevedere una serie di rimedi e sanzioni per garantirne l’effettiva applicazione.

A tal proposito, di fondamentale importanza è il tema della sicurezza delle catene di approvvigionamento e delle relazioni con i fornitori che vede introdurre adesso la responsabilità del top management nel caso di mancata osservanza degli obblighi di sicurezza informatica, introducendo altresì misure di vigilanza più rigorose per le autorità nazionali.

L’accordo provvisorio raggiunto, nel caso di definitiva approvazione da parte del Consiglio europeo e del Parlamento europeo prevederà a carico degli Stati membri un generale obbligo di recepimento della nuova Direttiva negli ordinamenti giuridici nazionali nel termine dilatorio di 21 mesi dalla sua entrata in vigore.




Digital Europe, ecco il programma per la trasformazione digitale dell’Unione Europea

Sicurezza informatica, intelligenza artificiale, competenze digitali avanzate, supercalcolo e la garanzia di un ampio uso delle tecnologie digitali nella società e nell’economia. Questi gli obiettivi di Digital Europe, il programma di finanziamento UE per favorire la trasformazione digitale dell’Unione Europea che può contare su un budget complessivo di 7 miliardi e mezzo di euro da spendere fino al 2027.

Gli obbiettivi strategici che si inseriscono in una strategia europea più ampia e hanno come quadro di riferimento il MFF (Multiannual Financial Framework), ossia il bilancio pluriennale dell’UE, che delinea le strategie e le risorse disponibili per il periodo 2021-2027, sono i seguenti:

Horizon Europe,  il programma quadro dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione per il periodo 2021-2027
il programma CEF (Connecting Europe Facility), che si occupa di promuovere investimenti nelle infrastrutture strategiche, come banda larga e 5G
Creative Europe, il programma dedicato all’industria creativa e ai media
EU4Health, il programma di investimenti per la digitalizzazione del settore sanitario
la politica di coesione dell’Unione Europea, in riferimento agli obiettivi di sviluppo della rete di connettività (per ridurre le disuguaglianze tra i Paesi membri), di sostegno alle imprese e di sviluppo delle competenze digitali la strategia di trasformazione digitale del settore agricolo, che punta a sfruttare i Big Data per la politica agricola comune (CAP)
gli strumenti del Recovery and Resilient Facility (RRF), lo strumento europeo che mette a disposizione un totale di 723,8 miliardi di euro per la ripresa degli Stati membri dopo la pandemia

InvestEU, lo strumento di finanziamento per stimolare gli investimenti europei

Il work program per il biennio 2021-2022 indica le aree di intervento su cui l’UE aprirà dei bandi per promuovere la partecipazione di imprese private, affianco a soggetti comunitari:
High performance computing (HPC), gestito dall’Iniziativa europea sull’HPC (EuroHPC JU)
cyber security, che sarà gestita dall’ECC (European Cybersecurity Competence Network and Center), l’iniziativa europea che punta a creare un ecosistema industriale e di ricerca interconnesso a livello europeo sulla cyber sicurezza. In attesa che l’ECC sia operativo, il work program sarà gestito, ad interim, dal DG Connect, la Direzione generale della Commissione che si occupa delle politiche dell’Ue in materia di mercato unico digitale, sicurezza di Internet e scienza e innovazione digitale gli European Digital Innovation Hub (Edih), per cui è stato individuato un work program separato, in quanto le call che li riguardano hanno criteri diversi (gestiti da DG Connect)  main work program (il programma di lavoro principale), che copre obiettivi più specifici, gestito da DG Connect e EA HaDEA (l’agenzia esecutiva europea per la salute e il digitale).

Il main work program si concentrerà su quattro aree strategiche: l’Intelligenza Artificiale, cloud, i dati e sviluppo di programmi formativi (master) per le competenze digitali avanzate; azioni di cybersecurity e diffusione e miglior uso delle tecnologie (azioni a sostegno del Green deal, Blockchain, servizi pubblici e fiducia nella trasformazione digitale).

Le risorse
Vista l’entità degli interventi programmati, questi non saranno attivati contemporaneamente, ma saranno divisi in tre call. Le risorse complessive stanziate per il biennio ammontano a 1,38 miliardi di euro. Per la prima call – aperta lo scorso 17 novembre – sono stati stanziati circa 415 milioni di euro. Per la seconda, che sarà avviata nel primo trimestre del 2022, sono stati stanziati circa 250 milioni di euro e per la terza (che si aprirà nel terzo trimestre del 2022) circa 170 milioni di euro.




Covid, Uecoop: emergenza neet per 2mln di giovani in Italia

Salgono a oltre 2 milioni i giovani fra i 15 e i 29 anni che in Italia non studiano e non lavorano e che sono aumentati nell’anno della pandemia Covid. E’ quanto emerge dall’elaborazione dell’Unione europea delle cooperative (Uecoop) su dati dell’ultimo rapporto Istat sul Benessere dei territori. L’allarme riguarda quasi 1 su 4 (23,3%) che – spiega Uecoop – resta a casa senza fare nulla, sulle spalle di mamma e papà o a carico di qualche altro parente, in una situazione di sostanziale scoraggiamento rispetto a progetti, prospettive e futuro.

Il problema – evidenzia Uecoop – è cresciuto di più al Nord (+2,3%) e al Centro (+1,8%) mentre al Sud si registra un minimo calo (-0,4%) ma su un’incidenza che è pur sempre doppia (32,6% del totale) rispetto al Settentrione. La situazione di incertezza ha pesato sulle opportunità di lavoro e sulla fiducia degli italiani di poterne trovare uno, tanto che molti considerati inattivi ci hanno rinunciato più o meno definitivamente. Fra i motivi della mancata ricerca di un’occupazione si va dal “è tutto fermo” a “nessuno assume a causa Covid”, dal “timore del contagio” all’attesa “che si attenui la pandemia” fino a chi ha rinunciato a dare la caccia a un’occupazione perché ritiene proprio di non avere speranze di trovarlo spiega Uecoop.

La corsa del Pil nel 2021 con la ripartenza da record dell’economia è quindi una svolta strategica per il Paese anche dal punto di vista sociale – conclude Uecoop – con la necessità di ricostruire la fiducia nel futuro e la voglia di mettersi in gioco nello studio e nel lavoro con il mondo delle 80mila cooperative italiane che rappresenta un formidabile bacino di opportunità sia sul fronte dell’occupazione che su quello della formazione.




Report, Istat: Digitalizzazione e tecnologia nelle imprese italiane

La prima edizione del Censimento permanente delle imprese, conclusa alla fine del 2019, ha permesso di approfondire anche tematiche emergenti e rilevanti per la competitività, la sostenibilità sociale e ambientale e la crescita economica del Paese.

Nel rapporto che viene diffuso oggi l’attenzione si focalizza su digitalizzazione/tecnologia/innovazione. La progressiva digitalizzazione dei processi aziendali viene adottata come chiave di lettura per una serie di fenomeni che stanno influenzando le strategie imprenditoriali come lo sviluppo di progetti di innovazione, l’emergere di nuovi modelli di business, la diffusione e l’utilizzo di nuove tecnologie e, infine, l’impatto della digitalizzazione sulla forza lavoro.

Riguardo la diffusione di tecnologie digitali, l’utilizzo di un insieme di indicatori è giustificato da almeno due motivazioni. In primo luogo, la digitalizzazione è un fenomeno complesso e multidimensionale, tale da essere comunemente misurato mediante batterie di indicatori in forma di scoreboard, oppure con indicatori sintetici.

In secondo luogo, a livello internazionale il quadro metodologico e definitorio è ancora parziale; in particolare, manca una esauriente definizione a fini statistici di cosa si intenda esattamente per digitalizzazione. Ciò rende necessaria l’identificazione di indicatori che, seppur parziali, siano complementari tra loro e legati da una chiave di lettura unitaria, in modo da evitare raccolte asistematiche di generici indicatori “digitali”.

Ad esempio, gli indicatori statistici disponibili – riferiti per lo più all’adozione e all’uso di tecnologie ICT – sono stati utilizzati per misurare la trasformazione digitale delle imprese semplicemente in relazione alla diffusione di alcune tecnologie o pratiche – come la connettività a banda larga o la pratica dell’e-commerce – senza analizzare le trasformazioni da esse indotte nei processi aziendali.

La pratica manageriale suggerisce che la trasformazione digitale è invece essenzialmente un processo di evoluzione dell’organizzazione e della cultura aziendale che mira a raggiungere la “maturità” digitale (digital maturity) delle imprese.

Nel censimento permanente il tema della digitalizzazione è stato quindi interpretato integrando il monitoraggio degli investimenti in tecnologie digitali di tipo infrastrutturale (connessione a Internet, acquisto di servizi cloud, ecc.) con l’individuazione di investimenti più specializzati che possano segnalare uno spostamento verso il pieno utilizzo delle risorse digitali disponibili (Big Data, applicazioni di Internet delle cose, stampa 3D, robotica, simulazione, ecc.). In tale prospettiva, per maturità digitale si intende l’investimento in infrastrutture digitali non come obiettivo a sé ma come condizione per ottimizzare i flussi informativi all’interno dell’impresa, con effetti positivi in termini di efficienza e competitività.

Tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative
Nel periodo 2016-2018 oltre tre quarti delle imprese con almeno 10 addetti (77,5%) hanno investito, o comunque utilizzato, almeno una delle 11 tecnologie individuate nel questionario del censimento come fattori chiave di digitalizzazione.

L’utilizzo congiunto di tali tecnologie – in particolare, di una combinazione tra infrastrutture digitali e tecnologie applicative – viene quindi proposto come indicatore sperimentale di maturità digitale.

La maggior parte delle imprese utilizza un numero limitato di tecnologie, dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali e, necessariamente, cyber-security) e lasciando eventualmente a una fase successiva l’adozione di tecnologie applicative.

Sinora, il grado di “digitalizzazione” delle imprese è stato misurato essenzialmente in termini di infrastrutturazione (accesso alla banda larga, numero di apparecchiature acquistate od utilizzate, ecc.) con il rischio che una rapida diffusione della capacità tecnica di utilizzo di strumenti digitali potesse dare l’impressione di una maturità digitale che, in realtà, esisteva solo potenzialmente.

 

L’utilizzo di infrastrutture digitali giunge a saturazione già tra le imprese meno digitalizzate (quelle con investimenti “soltanto” in 4 o 5 tecnologie), solo molto più lentamente si diffondono applicazioni più complesse e con maggiore impatto sui processi aziendali: appena il 16,6% delle imprese ha adottato almeno una tecnologia tra Internet delle cose, realtà aumentata o virtuale, analisi dei Big Data, automazione avanzata, simulazione e stampa 3D) .

Il processo di digitalizzazione delle imprese sembra distinto in due stadi o, in alcuni contesti più complessi, anche multistadio. Appare infatti evidente la necessità di costruire in una prima fase le condizioni tecniche e culturali per avviare il processo di digitalizzazione che si completa, in una seconda fase, con l’adozione di soluzioni applicative più utili ed efficaci per aumentare efficienza e produttività.

La chiave di lettura proposta è quella di superare un approccio quantitativo (maturità digitale = numero di tecnologie adottate) e di considerare come fattore chiave l’integrazione tra tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative in un’ottica di complementarietà delle varie soluzioni tecnologiche. Ovviamente, un limite di tale approccio è che non esiste un mix tecnologico da identificare come ideale ma, piuttosto, l’integrazione di diverse soluzioni tecnologiche deve assecondare la forte eterogeneità esistente nel settore delle imprese.

 

Il discrimine dimensionale nell’adozione di tecnologie digitali, ad esempio, è assai marcato. Ha effettuato investimenti digitali il 73,2% delle imprese con 10-19 addetti e il 97,1% di quelle con oltre 500 addetti. Meno significative sono le differenze territoriali: si passa dal 73,3% nel Mezzogiorno al 79,6% nel Nord-est.

A livello settoriale emerge il ruolo trainante dei servizi: le telecomunicazioni (94,2%), la ricerca e sviluppo, l’informatica, le attività ausiliarie della finanza, l’editoria e le assicurazioni hanno percentuali di imprese che investono in tecnologie digitali superiori al 90%. Il primo settore manifatturiero per investimenti digitali è la farmaceutica (94,1%), seguita a distanza dalla chimica (86,6%).

Il livello di maturità digitale delle imprese italiane
La base informativa offerta dal censimento consente di valutare come si distribuiscono tali imprese in relazione all’utilizzo combinato delle tecnologie. Una semplice analisi per classi latenti ha consentito di individuare quattro profili di impresa, definiti non tanto in base all’intensità dei loro investimenti digitali, quanto alla combinazione di diverse soluzioni tecnologiche interpretate come tra loro complementari .

 

Infine, il quarto gruppo è formato da imprese digitalmente “mature”, caratterizzate da un utilizzo integrato delle tecnologie disponibili, che sono un punto di riferimento per l’intero sistema delle imprese pur rappresentando solo il 3,8% del totale.

La presenza di tali gruppi di imprese è piuttosto omogena a livello settoriale, nel senso che la distribuzione non è molto diversa tra industria e servizi se non per il dato particolarmente elevato del 5,2% di imprese digitalmente “mature” nell’ambito dell’industria in senso ampio: un probabile effetto dei consistenti incentivi alla digitalizzazione resi disponibili a livello statale e regionale nel corso degli ultimi cinque anni.

 

La valutazione del grado di maturità digitale delle imprese italiane con 10 addetti e oltre può essere sintetizzata in quattro punti: circa tre quarti delle imprese sono impegnate in investimenti digitali (ma con prospettive di ulteriore diffusione di tali attività); le imprese sotto i 100 addetti sono prevalentemente coinvolte nella “costruzione” del loro peculiare modello di digitalizzazione; le imprese con oltre 100 addetti sono invece alle prese con la difficile “sperimentazione” di nuove soluzioni tecnologiche e organizzative; soltanto il 3,8% delle imprese (che valgono il 16,8% di addetti e il 22,7% di valore aggiunto) è già nella fase di maturità digitale; tale quota è decisamente più elevata nel Nord-ovest (4,7%), tra le imprese con oltre 500 addetti (23%) e nell’industria (5,2%).

Le soluzioni cloud: una vera tecnologia “abilitante”
Ѐ stato già osservato il ruolo degli investimenti in cyber-security e la loro caratteristica di interessare un numero crescente di imprese in parallelo all’intensificazione dei processi di digitalizzazione. Una tendenza non dissimile avviene per le soluzioni cloud, o servizi cloud, che garantiscono efficienza, economicità e sicurezza nella gestione di grandi quantità di dati e, più in generale, si propongono come condizione essenziale per la dematerializzazione dei processi aziendali. Passando dalle fasi esplorative alle fasi applicative della digitalizzazione, la probabilità di adottare soluzioni cloud aumenta dal 20% al 50% (Figura 3).

L’intensità applicativa è però ferma a un livello del 22,1% (pur corrispondente al 41,2% della forza lavoro e al 46,0% del valore aggiunto delle imprese con almeno 10 addetti), una condizione penalizzante nei confronti internazionali che segnala una debolezza infrastrutturale e rallenta di fatto i processi aziendali di digitalizzazione. Il motivo per cui governi e istituzioni di ricerca considerano essenziale la diffusione dei servizi cloud è perché si tratta di servizi che l’impresa può acquistare dall’esterno senza vincoli di localizzazione e dimensione.

Il cloud rende, in sintesi, possibile quella scalabilità delle attività digitali che è condizione essenziale per consentire, soprattutto alle imprese medio-piccole, di affrontare la sfida della trasformazione digitale senza immobilizzare ingenti risorse per l’acquisto di calcolatori, server per l’immagazzinamento dei dati e software applicativo. Una verifica del livello “qualitativo” dei servizi cloud acquistati dalle imprese italiane è stata svolta nell’ambito del censimento, esaminando per quali finalità le imprese italiane con 10 addetti e oltre utilizzano soluzioni cloud.

Le imprese utilizzano servizi cloud con modalità più strumentali che strategiche, in certa misura non dissimili da quelle delle famiglie. Tra le cinque tipologie di servizi considerate, la più diffusa è infatti quella della comunicazione, ovvero posta elettronica e messaggistica (66,1% delle imprese cui fa capo il 70% degli addetti e del valore aggiunto), che è ormai quasi totalmente gestita via cloud. Non meno ovvii sono gli utilizzi di servizi cloud per l’archiviazione dati (57,3%, 69,5% in termini di addetti) e per l’uso via Internet di software per ufficio (48,5% delle imprese, 60,7% degli addetti).

Meno frequenti le soluzioni più professionali e orientate al business, come l’uso da remoto di software gestionale (38,3% con prevalenza delle imprese più grandi: 50,3% in termini di addetti e 51,6% di valore aggiunto) e l’analisi dei dati aziendali in remoto che, sebbene limitata al 12,1% delle imprese (che pesano pur sempre per il 28,8% degli addetti e il 32% del valore aggiunto) indica un processo già avanzato di digitalizzazione dei dati aziendali.

Come si articola la digitalizzazione dei processi aziendali
Un’altra chiave di lettura del processo di digitalizzazione è offerta dallo studio del grado di utilizzo di software gestionale. In un contesto di progressiva dematerializzazione dei processi aziendali, le imprese devono dotarsi degli strumenti necessari a gestire i nuovi flussi informativi digitali con gradi crescenti di automazione delle procedure routinarie. In questo senso, l’adozione dei software gestionali da parte delle imprese può essere vista come un ulteriore indicatore, questa volta “orizzontale”, del grado di digitalizzazione di un’impresa.

L’orizzontalità può essere individuata con riferimento all’attività caratteristica della singola impresa che prevede tipicamente processi di input, gestione interna dei flussi materiali e immateriali, trasformazione e di output. Ciascuna fase del processo produttivo è soggetta a digitalizzazione con l’adozione di soluzioni (software) specifiche ma, evidentemente, solo con l’automazione di più fasi dell’intero processo produttivo si raggiunge un livello di maturità digitale che garantisce significativi guadagni di produttività.

Il livello base di automazione, a cui accede il 67,2% delle imprese (66,8% per le imprese con 10-19 addetti e 78,9% per le imprese con 500 e più addetti) è quello della gestione della documentazione aziendale. Questo è evidentemente anche il risultato di un contesto economico dove i partner dell’impresa – inclusa la pubblica amministrazione – richiedono in misura crescente comunicazioni in formato digitale. La necessità di archiviare efficacemente grandi quantità di documenti, ma anche la possibilità di gestire tali informazioni da remoto (ad esempio, con modalità di telelavoro), rendono spesso questi software i primi gestionali a cui accedono le imprese, anche piccole e medie.

Un’altra esigenza chiave delle imprese, soprattutto manifatturiere e di alcuni settori dei servizi, è quella della gestione del magazzino e dei flussi materiali in entrata e uscita dall’impresa. I software che gestiscono questa funzione sono utilizzati in media dal 50,7% delle imprese: tale quota scende al 45,4% considerando le imprese con 10-19 addetti e raggiunge il 72,7% tra quelle con 500 addetti e oltre.

Le esigenze legate alla gestione della “catena di distribuzione di un’impresa” sono poi fortemente differenziate a livello dimensionale e settoriale.
La terza categoria di applicazioni, anch’esse molto diffuse, include quelle che automatizzano la gestione della contabilità (e degli adempimenti fiscali). Il 47,9% delle imprese dichiara di affidarsi a tali soluzioni (41,4% tra le imprese con 10-19 addetti, 76,3% tra le grandi).

Il grado di adozione di queste applicazioni diminuisce con l’aumentare della complessità degli applicativi gestionali, ma soprattutto con la necessità di riorganizzare l’intera struttura dell’impresa per garantire che essi siano alimentati da corretti e costanti flussi informativi.

La gestione della produzione, sia nelle imprese manifatturiere che in quelle dei servizi, non è facilmente automatizzabile, anche adottando sofisticate soluzioni digitali, in quanto richiede che sia predisposta una complessa rete di sensori per consentire il monitoraggio in tempo reale di tutte le funzioni produttive. Infatti, accede a queste tecnologie solo il 33,7% delle imprese (26,7% delle piccole, 51% delle grandi e 58,5% tra le imprese manifatturiere).

Un altro esempio è la gestione sistematica delle relazioni con la clientela, su cui investono solo le imprese che hanno superato una determinata soglia in termini di numero di clienti, complessità dei beni e servizi offerti e intensità delle transazioni, e che operano su mercati fortemente competitivi.

In questo caso, le più adottate sono le già citate soluzioni CRM (Customer Relationship Management), che gestiscono funzioni interne ed esterne all’impresa e sono state scelte dal 33,0% delle imprese (31,4% tra le piccole, 51,5% tra le grandi).

Un livello più specialistico riguarda quelle applicazioni finalizzate ad automatizzare (o supportare) la pianificazione aziendale piuttosto che la vera e propria gestione operativa dell’impresa. Si tratta, da un lato, delle applicazioni per la pianificazione delle attività di produzione e, dall’altro, delle già citate soluzioni ERP (Enterprise Resource Planning) per la pianificazione dell’intera gestione aziendale (e che, in realtà, spesso incorporano diverse funzioni presenti anche nei software “specializzati” citati in precedenza). Il software per la pianificazione della produzione è presente nel 23,1% delle imprese (16,1% nelle piccole, 48,2% nelle grandi), quello per la pianificazione gestionale, o ERP, nel 21,7% (17% nelle piccole, 54,5% nelle grandi).

Anche se la presenza di software ERP indica un elevato grado di maturazione digitale di un’impresa, l’utilizzo di questo indicatore nei confronti internazionali risulta poco utile per valutare il grado di integrazione orizzontale dei processi oggetto di digitalizzazione, per cui sarebbe opportuno analizzare diverse tipologie di software gestionali e di pianificazione.
Riguardo l’integrazione “orizzontale” dei diversi software gestionali, si conferma il quadro già delineato .

Le imprese che adottano il loro primo software gestionale si orientano verso applicativi per la gestione documentale o la contabilità industriale, che sono evidentemente le esigenze percepite come più pressanti. In una fase ulteriore emerge la necessità di incrementare l’efficienza nella gestione della supply chain, ovvero delle relazioni con i fornitori e del magazzino.

La gestione del processo produttivo e delle relazioni con la clientela (CRM) trovano spazio solo a un livello di integrazione più elevato perché si tratta già di applicazioni interconnesse con il sistema informativo aziendale e non possono operare in isolamento (stand-alone). L’ultima fase di integrazione riguarda la pianificazione della produzione e della gestione (ERP), soluzioni che sono efficacemente adottate solo nel contesto di un’impresa digitalmente “matura” o, comunque, con una gestione avanzata dei flussi informativi interni.

 

Gli effetti percepiti della digitalizzazione
Dal momento che il censimento offre un’istantanea del processo di trasformazione digitale delle imprese italiane essenzialmente riferito all’anno 2018, eventuali valutazioni sull’impatto economico e sociale di tale processo dovranno essere rimandate al momento in cui sarà disponibile – con un necessario ritardo temporale

– una chiara evidenza quantitativa sui relativi effetti nel medio-lungo termine. D’altra parte, le imprese hanno già una percezione di come gli investimenti digitali stanno influenzando le loro attività – e, in particolare, la loro produttività – e tale percezione è stata oggetto di rilevazione nel censimento.

Sono stati considerati sette effetti principali (cinque positivi e due negativi) che la digitalizzazione potrebbe avere sulla produttività d’impresa.

In merito agli effetti positivi, il 65,6% delle imprese, con 10 addetti e oltre, che hanno adottato almeno una tecnologia digitale nel triennio 2016-2018 ritiene che il digitale abbia agevolato la condivisione di informazioni e conoscenze all’interno delle imprese (86% delle grandi imprese). Sono invece soltanto il 40,9% quelle che hanno verificato una relazione positiva tra digitalizzazione e incremento dell’efficienza dei processi produttivi (imprese manifatturiere 52,3%).

Inoltre appena il 17,3% delle imprese pensa che la digitalizzazione faciliti l’acquisizione di conoscenze dall’esterno e il 10,4% che renda possibile ottenere dall’esterno servizi, materie prime e semi-lavorati di migliore qualità. Irrilevante (3,8%) è infine la percentuale di imprese che ritengono la digitalizzazione utile per incrementare le opportunità di esternalizzazione di funzioni produttive.

Riguardo ai due fattori potenzialmente negativi, le imprese italiane considerano entrambi irrilevanti: solo l’1,7% delle rispondenti considera un rischio la perdita di efficienza o produttività dovuta alle criticità della transizione mentre lo 0,6% non ritiene rischiosa la perdita di efficienza o produttività determinata da investimenti eccessivi in digitale.

La percezione positiva degli effetti della digitalizzazione è legata anche al grado di intensità dell’investimento in tecnologie digitali (espresso in termini di numero di tecnologie adottate). Una lettura di tali effetti percepiti – basata sulla distinzione delle imprese nei quattro livelli di maturità digitale precedentemente descritti – conferma che il grado di digitalizzazione influisce direttamente sulla percezione delle imprese.

Anche in questo caso, si tratta in realtà di un diverso grado di apprezzamento positivo dei vantaggi di adottare tecnologie digitali, in quanto gli effetti negativi sono quasi irrilevanti. Ѐ comunque interessante notare che le imprese “sperimentatrici” hanno una percezione dei vantaggi della digitalizzazione assai simile a quella delle imprese digitalmente “mature”: un segnale dell’efficacia di tali tecnologie almeno per quanto riguarda la circolazione di conoscenza (inclusi dati e informazioni gestionali) all’interno e all’esterno dell’impresa.

 

Digitalizzazione e formazione del personale
Tra le varie sfide che ostacolano il processo di trasformazione digitale delle imprese è da considerare con particolare attenzione la necessità di preparare adeguatamente il personale per un utilizzo efficace delle nuove tecnologie. Il censimento ha indagato la questione con uno specifico quesito finalizzato a verificare una relazione diretta tra l’adozione di una specifica tecnologia digitale e la somministrazione di una altrettanto specifica formazione professionale.

Dai risultati censuari emerge con chiarezza che l’adozione di software gestionali rappresenta ancora una sfida per molte imprese: in media, circa il 40% di esse necessita di formare ad hoc il personale per il suo utilizzo (72,6% per le grandi imprese, dove si può ipotizzare l’adozione di software più complessi o che richiedono una maggiore disponibilità di dati per operare) .

Una formazione specifica per l’uso di Internet è ancora rilevante ma in un contesto in cui, almeno per le grandi imprese, si può assumere che il personale sia già largamente auto-formato.

Ovviamente, l’auto-formazione può riguardare lo svolgimento di funzioni come “utenti” di Internet mentre resta essenziale una specifica formazione professionale per le figure che gestiscono e mantengono le reti. Soprattutto le grandi imprese segnalano, piuttosto, una vera emergenza formativa in tema di cyber-security (52,9%) che è, in media, la terza tecnologia digitale che richiede supporto formativo. Infine, le piccole e medie imprese – che hanno bassi livelli di adozione di tecnologie digitali applicative – non considerano rilevante la formazione su applicazioni come la simulazione tra macchine interconnesse, l’automazione industriale, i Big Data, la stampa 3D, l’Internet delle Cose o le tecnologie immersive.

Ovviamente, c’è da tenere conto che tali tecnologie sono spesso adottate da imprese medio-piccole con il supporto esterno di società fornitrici di tecnologia o di consulenza, mediante pacchetti che includono assistenza e formazione del personale. Infatti, il ricorso alla formazione su tali tecnologie è più elevato tra le grandi imprese dove la maggior parte dei processi è internalizzata.

 

Gli investimenti futuri in digitalizzazione
Alla luce delle tendenze emerse con riferimento al triennio 2016-2018, e tenendo conto del contesto economico e sociale in rapida evoluzione, può essere di interesse esaminare quali erano, nella fase pre-Covid-19, le aspettative delle imprese relativamente ai loro investimenti in tecnologie digitali tra il 2019 e il 2021.

Una quota significativa di imprese dichiara di voler mantenere elevati gli investimenti infrastrutturali (connessione a Internet, cyber-security) mentre per le tecnologie applicative – pur tenendo conto del loro diverso grado di diffusione a livello settoriale – quelle che le hanno inserite nei propri progetti di sviluppo sono sistematicamente sotto il 10%, escluso l’Internet delle Cose .

A livello settoriale, a parte il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, non emergono aspettative di investimenti significativi concentrati in singoli comparti. Vi sono però alcuni casi di investimenti mirati, ad esempio l’automazione/robotica e la simulazione nel settore manifatturiero che arriva ad interessare il 16-17% delle imprese dell’intero comparto. In generale, però, anche prima della crisi COVID-19, le imprese italiane non mostravano di essere pronte a un cambio di passo nei processi di trasformazione digitale.

 

In generale, le imprese sembrano orientarsi verso aggiustamenti limitati dei propri progetti di sviluppo, almeno è ciò che emerge nell’analisi per dimensione d’impresa.

Ad esempio, la classe 10-19 addetti è divisa in due cluster: uno caratterizzato da incrementi attesi rilevanti, ma a partire da livelli di diffusione inferiori al 10% (si tratta prevalentemente di tecnologie applicative); l’altro, riferito a tecnologie infrastrutturali, mostra livelli di diffusione in media con le altre classi dimensionali ma incrementi attesi estremamente bassi.

Con leggere differenze, questo schema è valido per quasi tutte le classi di addetti determinando, come già osservato, una limitata dinamica a livello di sistema .

Un’eccezione merita però di essere segnalata. Con riferimento a tre tecnologie applicative chiave – Internet delle Cose, automazione e robotica e analisi dei Big Data – il 50% delle imprese appartenenti alle classi dimensionali 250-499 addetti e 500 e oltre dichiara l’intenzione di mantenere un elevato tasso di incremento anche in presenza di tassi di diffusione già significativi per il contesto italiano.

 

Le competenze digitali del personale delle imprese
La digitalizzazione cambia la domanda di competenze del personale e fa emergere nuove priorità e potenziali criticità. Il tema dell’alfabetizzazione informatica, ad esempio, è trasversale a tutti gli ambiti sociali ed economici ma risulta cruciale in contesti lavorativi soggetti a intensi processi di transizione digitale.

Il tema è ovviamente complesso e una singola indagine statistica può cogliere solo alcuni aspetti del fenomeno.

I risultati ottenuti dal censimento sono stati distinti in quattro aree di competenza: alfabetizzazione digitale (A), articolata in tre competenze specifiche; comunicazione e collaborazione (B), articolata in tre competenze specifiche; sicurezza (C), articolata in due competenze specifiche; soluzione dei problemi (D), articolata in due competenze specifiche (Figura 9).

L’area di competenza relativa alla sicurezza (C) è quella considerata più rilevante dalle imprese rispondenti: il 77,2% (86,8% degli addetti e 90,9% del valore aggiunto) considera rilevante la capacità del personale di “proteggere i dati personali e la privacy” e il 75% (85,4% degli addetti e 90,3% del valore aggiunto) di “proteggere i dispositivi digitali da virus o attacchi esterni”.

Il livello di criticità di queste competenze non è elevato, la percentuale di imprese che considerano non adeguato il livello di competenza del proprio personale varia tra il 10,4% e il 12,4% (quote analoghe anche in termini di addetti e valore aggiunto).

La seconda area di competenza segnalata è quella della comunicazione e collaborazione (B). Il 71,7% delle imprese (84,5% in termini di addetti e 89,1% in termini di valore aggiunto) considera importante la capacità di “comunicare sul luogo di lavoro via e-mail o mediante connessioni digitali”; la percentuale scende al 63,7% (78,2% addetti, 83,8%% valore aggiunto) per la capacità di “condividere informazioni di lavoro attraverso le tecnologie digitali” e al 59% (73,9% addetti e 80,0% valore aggiunto) per “collaborare sul lavoro attraverso le tecnologie digitali”.

Questo blocco di competenze sembra largamente acquisito dal personale delle imprese rispondenti: la criticità è del 6% o inferiore.

Tra le restanti classi di competenza, quella relativa alla capacità di affrontare e risolvere problemi in ambito informatico (D), la capacità di “risolvere problemi tecnico-informatici sul luogo di lavoro”, considerata rilevante solo dal 58,7% delle imprese (72,1% addetti, 78,0% valore aggiunto) è però quella con il più alto grado di criticità: tale competenza è infatti ritenuta non adeguata dal 20,7% delle imprese (equivalenti al 14,4% degli addetti).

Quanto alla capacità di “individuare le esigenze dei colleghi ed elaborare adeguate risposte basate su tecnologie digitali”, è considerata dalle imprese poco rilevante (42,7% imprese, con 61,3% addetti e 68,1% valore aggiunto) probabilmente perché è un compito troppo “tecnico” ma comunque rappresenta un punto di criticità per ben il 15,5% dei rispondenti (12,4% degli addetti).

 

Le competenze informatiche di base non sembrano essere tenute in grande considerazione dalle imprese, forse perché ritenute largamente acquisite dal personale. La capacità di “ricerca, selezione e modifica di documenti digitali in qualsiasi forma” è rilevante per il 54,6% delle imprese, la “valutazione, analisi e utilizzo di dati, informazioni e contenuti digitali, anche scaricati dal Web” dal 48,3%, la “gestione, elaborazione e classificazione di dati, informazioni e contenuti digitali in ambiente Web” dal 45,7%. Anche nel caso delle competenze digitali di base i livelli di criticità sono bassi, inferiori al 9%.

Effetti della digitalizzazione sulla struttura occupazionale
Un altro tema strettamente legato alla diffusione delle tecnologie digitali è quello relativo al loro potenziale impatto sulla struttura occupazionale delle imprese in termini di mansioni. In generale, si suppone che la digitalizzazione, ma anche l’automazione, possano ridurre le mansioni più “routinarie” aprendo prospettive di sviluppo per nuove mansioni di tipo più creativo.

Nell’ambito del censimento, l’Istat ha potuto raccogliere alcune evidenze, anche se necessariamente condizionate da una prospettiva di breve periodo (con riferimento a cambiamenti attesi tra il 2019 e il 2021) per un fenomeno che dovrebbe essere correttamente analizzato in una prospettiva almeno decennale. Il quesito è stato posto a imprese che hanno effettuato investimenti in tecnologie digitali nel triennio 2016-2018 o prevedono di investire nel triennio 2019-2021 con riferimento alle loro aspettative.

In termini di mansioni, sono stati identificati cinque grandi gruppi a cui fa spesso riferimento la letteratura sul tema: mansioni professionali specializzate; mansioni di interazione e comunicazione; mansioni tecnico-operative; mansioni manuali non specializzate; mansioni manuali specializzate

Ovviamente, le mansioni tecnico-operative e quelle manuali non specializzate sono quelle più “routinarie” e, in quanto tali, più facilmente sostituibili, in teoria, in un processo di digitalizzazione/automazione. I risultati del censimento contraddicono, in realtà, tale ipotesi teorica (forse in relazione sia all’ancora scarsa “maturità” digitale delle imprese italiane che alla ridotta prospettiva temporale) .

 

Infatti, le mansioni con le migliori prospettive sembrano essere quelle tecnico-operative (incremento previsto nel 67,6% delle imprese, decremento previsto nel 20%) e ciò può indicare una domanda crescente di personale tecnico da parte delle imprese italiane. Seguono le mansioni manuali non specializzate, tipicamente routinarie (con un incremento previsto dal 61,3% e una diminuzione per il 27,6%) e le mansioni di interazione e comunicazione (+60,5%, -25%) messe anch’esse, in teoria, a rischio dalle nuove tecnologie.

Meno dinamiche appaiono in prospettiva le mansioni potenzialmente più creative. Quelle professionali specializzate si espanderanno per il 53,2% delle imprese e si contrarranno per il 32,6%. Maggiore turbolenza potrebbe invece investire le mansioni manuali specializzate, anche a causa della loro elevata eterogeneità: in crescita per il 49,1% delle imprese e in riduzione per il 42,4%.

Anche qui il fattore dimensionale influenza molto le risposte delle imprese: quelle con 10-19 addetti sono molto più pessimiste delle altre mentre le grandi prevedono un impatto della digitalizzazione sull’occupazione assai più contenuto. Tale discrimine può essere individuato anche nella valutazione della singola tipologia di mansione, come nel caso delle mansioni professionali specializzate che sono relativamente stabili nelle imprese con almeno 50 addetti mentre si fanno più a rischio nelle imprese sotto tale soglia.

Come la digitalizzazione modifica la selezione e la gestione del personale
Nel corso del processo di transizione digitale, le imprese sono chiamate a ridefinire sostanzialmente il modo in cui selezionano e gestiscono il personale. Nuovi compiti, nuove competenze e nuove figure professionali -in parallelo con l’obsolescenza di forme di lavoro del passato – devono indurre le imprese a vedere nei propri dipendenti un asset per raggiungere la maturità digitale. Il censimento ha voluto esplorare se alcuni cambiamenti di approccio dal lato delle imprese siano già visibili.

In generale emerge un quadro piuttosto conservatore delle pratiche di gestione del personale utilizzate dalle imprese italiane anche se, ancora una volta, le differenze per classe dimensionale sono evidenti.
Infatti, in risposta a una crescente domanda di competenze digitali, il 38,3% delle imprese (51,3% degli addetti e 55,1% del valore aggiunto) dichiara che presterà maggiore attenzione a tali competenze in fase di selezione del personale (60,1% tra le imprese con più di 500 addetti) mentre il 33,6% (44,5% degli addetti totali) prevede

di esternalizzare le funzioni digitalizzate utilizzando le competenze digitali di consulenti o collaboratori (che è soltanto la quarta opzione per le imprese con 500 addetti e oltre) . Inoltre, il 22,7% delle imprese (41,1% degli addetti) ha in programma di incrementare gli investimenti in automazione, sia nei processi produttivi che nelle funzioni di servizio.

Considerando che come quarta opzione (22,2% delle imprese, 28,9% degli addetti) le imprese hanno indicato l’intenzione di avvalersi, per quanto possibile, della disponibilità del personale all’autoformazione, ovvero all’acquisizione autonoma di competenze digitali, il quadro complessivo è quello di un sistema delle imprese che, a fronte di rilevanti investimenti tecnologici, fatica a tenere il passo con adeguati investimenti per la valorizzazione del capitale umano.

L’investimento sistematico in formazione digitale per aumentare le competenze del personale è, infatti, solo la quinta opzione indicata dai rispondenti (21,6% delle imprese, 40,7% degli addetti) anche se, significativamente, la seconda più rilevante per le imprese con 500 addetti e oltre (54,0% delle imprese, che vale il 59,6% degli addetti delle grandi imprese e il 65,0% del loro valore aggiunto). Ѐ infine residuale (2,0% delle imprese) la scelta di accelerare il turnover tra personale con competenze obsolete e nuovo personale con migliori competenze digitali.

Anche questi dati confermano che il processo di transizione al digitale delle imprese italiane non ha le caratteristiche che possano consentire a molte di esse di raggiungere, in tempi brevi, lo stadio di “maturità”.
La limitata dimensione d’impresa condiziona ancora fortemente il sistema produttivo, non tanto per l’acquisizione di tecnologie digitali infrastrutturali quanto per un pieno utilizzo delle potenzialità delle tecnologie applicative. Emerge la mancanza di una cultura dell’investimento in capitale intangibile, e in primo luogo in capitale umano, per il quale sarebbero peraltro accessibili molteplici forme di sostegno pubblico.

L’impatto economico delle piattaforme digitali
Il monitoraggio delle vendite elettroniche, già oggetto di indicatori annuali Istat, viene arricchito dal censimento con un focus sull’utilizzo, da parte delle imprese con almeno 3 addetti, di piattaforme digitali di intermediazione commerciale, ovvero i siti Web attraverso cui una percentuale crescente di famiglie e imprese acquista beni e servizi.

L’approccio adottato è quello di individuare e profilare non le piattaforme digitali – con sede in Italia o all’estero – in quanto tali, ma piuttosto i soggetti economici italiani che, in alternativa o in aggiunta ai tradizionali canali commerciali, vendono i loro beni e servizi anche tramite piattaforme digitali. Ciò rende possibile analizzare tali imprese da due punti di vista: uno economico, sulla base della loro classificazione settoriale e dimensionale, e uno merceologico, grazie alla tipologia di piattaforme digitali che utilizzano per le loro vendite.

Il censimento ha consentito quindi all’Istat di stimare che, nel 2018, 99.814 imprese con 3 addetti e oltre – di cui 75.206 con meno di 10 addetti – hanno messo in vendita i loro beni o servizi su almeno una piattaforma digitale. Considerando la popolazione delle imprese censite, si tratta di quasi un’impresa su 10 attiva su piattaforme digitali (9,7% di imprese con 3 addetti e oltre, 11,6% di imprese con almeno 10 addetti).

Il volume di attività generato da tali imprese sulle piattaforme digitali è stimabile – con riferimento, però, alle sole imprese con 10 addetti e oltre – intorno al 2,4% del fatturato totale 2018, per un valore complessivo superiore ai 44 miliardi di euro. I dati totali offrono un quadro del fenomeno che va però letto soprattutto con riferimento ai settori più direttamente coinvolti ovvero quelli dove la vendita di beni e servizi tramite piattaforme digitali sta divenendo una componente essenziale delle strategie di commercializzazione delle imprese.

Il comparto turistico e della mobilità è quello più direttamente interessato, è presente su piattaforme digitali l’80% delle imprese con oltre 3 addetti attive nei servizi di alloggi . Inoltre, considerando le imprese con almeno 10 addetti, proviene da piattaforme digitali il 24% del fatturato totale del settore (con riferimento, quindi, a tutte le imprese indipendentemente dalla presenza su una piattaforma), quota che sale al 27,7% a livello di singola impresa (ovvero con riferimento alle sole imprese che utilizzano piattaforme).

I risultati confermano che per le imprese di alcuni settori è assolutamente necessario confrontarsi con i propri concorrenti sulle piattaforme digitali ma tenendo attivi anche gli altri canali commerciali, tradizionali e online. Nel trasporto aereo, il 46,9% delle imprese utilizza le piattaforme (praticamente tutte le imprese che offrono servizi di trasporto alle persone) con tassi di fatturato anche più alti rispetto ai servizi ricettivi: 26% sul totale del settore e 30,7% come media a livello d’impresa per le imprese presenti su piattaforme digitali.

Un altro esempio è quello delle agenzie di viaggio, che rappresentano un interessante caso di doppia intermediazione: la presenza sulle piattaforme serve a entrare in contatto con clienti a cui fornire, insieme alla propria consulenza, anche servizi forniti da terzi. La presenza complessiva è del 38,9% riguardo al numero di imprese; i tassi di fatturato sono del 10,9% (totale) e del 25,1% (media d’impresa).

Scorrendo la lista delle attività economiche considerate si possono poi identificare altre tipologie ricorrenti. Una prima è rappresentata dai settori con una significativa presenza sulle piattaforme digitali ma le cui imprese realizzano un fatturato assai basso (o spesso quasi nullo) tramite esse (attività editoriali, commercio di autoveicoli, produzione di bevande e alimentari…) al solo fine di aumentare la propria visibilità sul mercato, anche in presenza di basse aspettative sui relativi risultati economici.

Una seconda tipologia riguarda invece le imprese che realizzano interessanti tassi di fatturato nonostante una presenza contenuta sulle piattaforme digitali (ad esempio, produzione di software, noleggio di macchinari, telecomunicazioni, trasporto marittimo e servizi informatici in genere). In questi casi si tratta di mercati dominati da grandi imprese che operano prevalentemente su piattaforme digitali specializzate; a prescindere dall’impatto economico a livello di settore, le imprese che occupano tali nicchie di mercato riescono, in media, a realizzare quote di fatturato via piattaforme tra il 15% e il 25%.

Una terza tipologia è quella dei settori in una fase iniziale, almeno in Italia, in merito all’utilizzo di piattaforme (ad esempio, il commercio di autoveicoli, le attività immobiliari, l’ingegneria civile e le costruzioni). Nell’incertezza su quale modello organizzativo si consoliderà per questi settori – comparazione delle offerte su piattaforme digitali che consentono di acquistare direttamente beni o servizi oppure sviluppo di siti Web che offrono solo la comparazione dei prezzi di vendita senza vendita diretta – si osserva che diverse imprese già raggiungono quote di fatturato significative (tra il 10% e il 20%) dalla loro attività su piattaforme digitali.

Vale, infine, la pena porre attenzione su due aspetti solo parzialmente messi in evidenza dai dati censuari. Il primo è quello dell’offerta di servizi professionali e tecnici. I dati riguardanti la vendita di servizi di ingegneria o di architettura oppure informatici sottostimano con molta probabilità il crescente ricorso a piattaforme digitali per acquistare servizi di consulenza per operazioni immobiliari, di costruzione o ristrutturazione, sviluppo software ma anche prestazioni mediche o consulenze legali. Ovviamente, molti di questi servizi sono offerti da professionisti che operano come imprese individuali e in quanto tali escluse dal censimento. La portata economica e sociale di questo fenomeno potrà essere quindi colta solo con rilevazioni settoriali.

Il secondo riguarda l’impatto limitato che le piattaforme digitali sembrano avere avuto nel 2018 sul settore della ristorazione: soltanto il 12,1% delle imprese ha dichiarato di utilizzarle e anche in termini di fatturato i risultati non sono brillanti: appena il 2,2% per l’intero settore (anche se solo con riferimento alle imprese con almeno 10 addetti) e il 12,8% come media a livello d’impresa. Su questi risultati incide senz’altro la dimensione media delle imprese, dal momento che gli operatori del settore utilizzano estesamente rapporti di lavoro non dipendente e ciò contribuisce a portare molte imprese fuori dal campo di osservazione censuaria.

Un ulteriore aspetto che meriterà di essere affrontato con indagini settoriali è quello della percezione, nel settore della ristorazione, del ruolo delle piattaforme digitali. Infatti, le piattaforme offrono un doppio servizio in questo settore: intermediazione commerciale e consegna dei pasti a domicilio. I modelli di business adottati in Italia dalle principali piattaforme rendono i due servizi difficilmente distinguibili (tra l’altro la quota pagata dal ristoratore copre i costi di entrambi) e possono indurre i titolari di imprese a non considerarsi pienamente coinvolti nell’attività di una piattaforma poiché vista essenzialmente come agenzia di consegna pasti.

Rispetto alla valutazione dei risultati, il 17,3% delle imprese con 10 addetti e oltre stima che l’attività sulle piattaforme digitali abbia consentito di incrementare il fatturato totale di oltre il 10% (18,2% per le imprese con 10-19 addetti). L’impatto economico è comunque da considerarsi limitato perché il fatturato di queste imprese è complessivamente pari solo all’11,9% del totale delle imprese con almeno 10 addetti.

Il rafforzamento della posizione competitiva, un risultato spesso determinato anche soltanto dalla presenza di un’impresa sul sito Web di una piattaforma digitale, è un risultato acquisito dal 41,1% delle imprese (45,9% in termini di fatturato) e risulta particolarmente rilevante per quelle con oltre 500 addetti (61,5% delle imprese), a conferma che, almeno in alcuni settori, le piattaforme digitali sono vetrine in cui è necessario essere presenti per essere visibili alla potenziale clientela. L’utilizzo delle piattaforme digitali è invece un obiettivo fondamentale per il 30,8% delle piccole imprese, al fine di garantirsi un volume di vendite che consenta di rimanere attivi sul mercato (33,5% per le imprese con 10-19 addetti, ma solo 18,1% in termini di fatturato).

La potenzialità più interessante offerta dalla quasi totalità delle piattaforme digitali di aprire a soggetti anche di piccole dimensioni aziendali un mercato potenzialmente globale – non è molto sfruttata dalle imprese italiane: soltanto il 3,5% (4,4% del fatturato totale) dichiara, infatti, di aver acquisito nuovi clienti all’estero con la sua presenza su una piattaforma digitale. Bisogna notare che il quesito si riferiva ai nuovi clienti mentre è certa la presenza su piattaforme digitali commerciali di imprese italiane che hanno già clienti residenti all’estero.

L’analisi sinora svolta sulle imprese italiane che operano con piattaforme digitali non ha considerato la natura delle piattaforme a cui accedono tali imprese. La ricostruzione del legame tra un’impresa, come identificata in un registro statistico ufficiale, e una piattaforma digitale è un’operazione assai difficile considerando la varietà dei rapporti commerciali che possono instaurarsi tra l’impresa e la piattaforma (soprattutto in relazione ai diversi servizi che l’impresa può acquistare da una piattaforma), la diversità dei modelli di business adottati dalle piattaforme e la localizzazione stessa della piattaforma che, spesso, ha sede all’estero.

Senza adottare distinzioni predefinite in base alla tipologia o alla localizzazione delle piattaforme digitali considerate, si può osservare che la maggior parte delle imprese italiane con oltre 3 addetti che utilizzano piattaforme digitali (5,4% del totale dei settori considerati, pari a oltre 28 mila imprese, 10% delle imprese tra i 10 e 100 addetti) è presente su piattaforme internazionali che vendono servizi turistici (es. Booking.con, Expedia, TripAdvisor) o servizi di affitto a breve termine (es. AirBnB).

Esistono però anche piattaforme digitali italiane che, prevalentemente su base territoriale, svolgono attività di intermediazione sul Web tra strutture ricettive del territorio e potenziali clienti .

Un secondo gruppo, che comprende prevalentemente imprese manifatturiere, ma anche imprese del commercio che vendono attraverso piattaforme digitali, è composto da imprese che vendono i propri prodotti su piattaforme commerciali multi-settore (4% del totale delle imprese, 7% di imprese tra 250 e 500 addetti, 8,2% oltre i 500 addetti). L’esempio più comune in questa categoria di piattaforme è l’Amazon Marketplace (non Amazon in quanto rivenditore di beni acquistati dai propri fornitori), insieme a Ebay ed Etsy.

Un terzo gruppo (2,9% del totale dei settori considerati) include le imprese della ristorazione che utilizzano piattaforme per la prenotazione e la consegna di pasti a domicilio, come Deliveroo, Just Eat, Uber Eats e alcune piattaforme italiane operanti prevalentemente su base regionale.

Un quarto gruppo, che include circa 11 mila imprese con almeno 3 addetti (2% del totale e prevalentemente sotto i 10 addetti), è piuttosto composito, essendo riferito alle imprese che offrono i loro servizi su piattaforme digitali che vendono servizi professionali (es. ProntoPro o Fazland).

Un quinto gruppo comprende le imprese che producono e/o vendono prodotti per la casa, inclusi mobili, e prodotti del settore della moda. Sono l’1,3% delle imprese dei settori considerati per un totale di circa 5 mila imprese. Per quanto riguarda l’intermediazione, le piattaforme esistenti (es. Westwing) si stanno rapidamente

trasformando in e-shop tradizionali, quindi rivenditori, lasciando spazio a piattaforme commerciali gestite direttamente da consorzi di produttori.

Un sesto gruppo riguarda la vendita online specializzata di elettronica, ottica e strumentazione scientifica, settore dove operano anche piattaforme digitali nazionali. Le imprese interessate sono necessariamente poche, circa 3.500, lo 0,9% dei settori considerati.

Nel trasporto di persone (incluso il trasporto aereo) le piattaforme digitali gestiscono poco più di mille imprese (lo 0,4% di un gruppo molto composito di settori considerati nel censimento). Le piattaforme più attive sono quelle internazionali specializzate in servizi turistici e, soprattutto, nella vendita di biglietti aerei (es. Volagratis, Skyscanner).
Infine, un ultimo gruppo riguarda la consegna di prossimità di prodotti vari (es. Glovo, TakeMyThings), evidentemente utilizzata più da privati per le loro consegne, che da imprese (0,2% sul totale delle imprese).

Anche da questa sintetica rassegna emerge il quadro di un settore molto dinamico per cui è difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di lungo periodo, pur all’interno di una tendenza generale all’espansione delle attività commerciali via Web. Ad integrazione del quadro fornito dal censimento, l’approfondimento di alcuni temi – anche di rilievo politico-normativo, come la regolamentazione del lavoro all’interno delle piattaforme digitali – sarà possibile solo attraverso il ricorso a ulteriori indagini settoriali.